Sinistra Autonomia FederalismoRipartiamo dalle idee e dai territori
Lascio a Christian Rossi il compito di dire quanto necessario su storia, situazione e prospettive dell’Unione europea. Io mi sforzerò di rinvenire qualche linea di continuità, o almeno di coerenza, tra autonomismo sardo, federalismo italiano e federalismo europeo. E questo nella convinzione che la motivazione più forte al nostro essere europeisti e federalisti risieda proprio nella tradizione autonomistica della Sardegna.
L’idea di un possibile Stato federale europeo viene – come molti di voi già sapranno – dal riflesso potente nel vecchio continente della prima grande costruzione federale della storia moderna, gli Stati Uniti d’America (1787). Una costruzione ispirata dal pensiero di alcuni intellettuali americani imbevuti di cultura illuministica, Alexander Hamilton, James Madison e John Jay, autori degli scritti raccolti nel celebre volume «Il federalista» (1788).
Questi federalisti americani sostennero che nelle materie essenziali della difesa, della giustizia e dei diritti civili i poteri del governo federale dovevano non solo essere sovraordinati ai poteri dei singoli Stati, ma anche estendersi direttamente alla generalità dei cittadini americani.
La recezione in Europa dell’esperienza costituzionale americana avvenne soprattutto per il tramite della filosofia di Immanuel Kant. Denunciando nel suo progetto «Per la pace perpetua» (1795) l’anarchia, la barbarie e la permanente conflittualità tra gli Stati europei, il grande pensatore illuminista l’attribuiva al fatto che questi Stati erano detentori di poteri sovrani, che potevano esercitare a prescindere da ogni scrupolo morale e legale. E, dunque, soltanto la rinuncia a tali poteri sovrani e la creazione di una «federazione di Stati» retta da leggi comuni avrebbero potuto portare in Europa lo stato di diritto, e con questo la pace.
Nel secolo successivo, l’Ottocento, questa idea luminosa di un unico Stato federale europeo fu oscurata dall’affermazione dei nazionalismi, che esasperò le politiche di potenze degli Stati anche sulla scala mondiale, con lo sviluppo del colonialismo e dell’imperialismo. Questa pulsione di dominio dei maggiori Stati europei avrebbe portato l’Europa a sprofondare nel mare di sangue versato nelle due grand guerre mondiali del Novecento.
Intanto però, prima che questo avvenisse, l’idea federalista era recepita nell’Italia impegnata nel suo tormentato processo di unificazione nazionale e statale. I principali esponenti della tendenza federalista in cifra democratica furono, peraltro, due eminenti protagonisti del movimento risorgimentale, Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari. Attraverso Cattaneo, autore di alcuni scritti sulla Sardegna, il federalismo contagiava anche due notevoli democratici sardi, Giovanni Battista Tuveri e Giorgio Asproni.
Il programma politico federalista usciva tuttavia sconfitto dal confronto con la linea unitaria e centralista portata avanti dai liberali di destra, non senza l’avallo dei democratici mazziniani. La conseguenza fu la creazione di uno Stato italiano a forte vocazione centralista, che si sarebbe mostrato incapace di realizzare un’effettiva integrazione economica, sociale e culturale del Paese.
Ne scaturì, tra l’altro, un forte squilibrio tra le regioni del nord e le regioni del sud, denunciato con grande rigore, e vigore, da intellettuali come Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini, Guido Dorso e dallo stesso Antonio Gramsci. Nasceva così la «questione meridionale», nel cui seno venne pure a enuclearsi, con le riflessioni specialmente di Tuveri e di Asproni, una specifica questione sarda.
Il primo a comprendere che la questione sarda, come quella meridionale, scaturiva dall’ineguaglianza di sviluppo tra un nord industrializzato e un sud agricolo innescata dalla prima affermazione del capitalismo nell’Italia unita, fu Attilio Deffenu, giovane e geniale nuorese di formazione marxista e sindacalista.
A portare la questione sarda sul terreno concretamente politico, con la rivendicazione dell’autonomia dell’Isola, furono quindi i leaders del movimento sardista del primo dopoguerra, e in particolare Emilio Lussu e Camillo Bellieni. Nel 1921 fu anche fondato il Partito sardo d’Azione, il cui programma politico si qualificava tanto sul terreno istituzionale, con l’obiettivo di una regione autonoma, quanto sul terreno sociale, con la lotta per emancipare le masse popolari dalla soggezione ai potentati economici e burocratici del Paese.
Affermatosi il fascismo, il partito sardo venne soppresso dalle Leggi speciali del 26 novembre 1926 e Lussu fu pure oggetto di un’aggressione fascista nella sua abitazione di Cagliari, in Piazza Martiri, dalla quale si difese uccidendo un giovane squadrista, Battista Porrà. Incarcerato a Buon Camino e imputato di omicidio, il leader sardista fu assolto per legittima difesa dalla Corte d’Assise di Cagliari, ma inviato comunque al confino nell’isola di Lipari. Ne evase clamorosamente nel luglio del 1929, assieme a Carlo Rosselli e Fausto Nitti, con i quali nello stesso anno fondava a Parigi il movimento antifascista di Giustizia e Libertà.
Ed è proprio in seno a questo movimento, nel vivo della lotta clandestina contro fascismo e nazismo, che Lussu approfondì la sua idea di autonomia, trasformandola in una teoria federalista dello Stato. Nello scritto Federalismo, del 1933, sostenne infatti che soltanto riorganizzandosi su base federale e riconoscendo il ruolo decisivo delle comunità locali e delle organizzazioni dei lavoratori, il nuovo Stato democratico che sarebbe nato dalle rovine del regime fascista avrebbe potuto opporre un argine invalicabile a nuovi colpi di stato reazionari.
Siamo negli anni Trenta del Novecento, e mentre in Giustizia e Libertà si sviluppava una intensa discussione sul federalismo italiano – cui assieme a Lussu presero parte tra gli altri Leone Ginzburg, Carlo Levi e, soprattutto, Silvio Trentin (Riflessioni sulla crisi e sulla rivoluzione, 1933), veniva anche rilanciata l’idea di una federazione europea. A sostenerla furono soprattutto un intelligente diplomatico scozzese, Lord Lothian (Il pacifismo non basta, 1935) e un grande economista inglese, Lionel Robbins (Le cause economiche della guerra, 1939) che, muovendosi entrambi sul solco tracciato da Kant e dai federalisti americani attribuivano la principale responsabilità del caos delle relazioni internazionali – sul punto di sfociare in una seconda guerra mondiale – agli egoismi nazionali e statali, cui avrebbe potuto far fronte soltanto la creazione di «un’unione federale di Stati».
A raccogliere il messaggio e l’ammonimento di Lord Lothian e Robbins non furono però le diplomazie e i governi europei, ma alcuni antifascisti italiani confinati nell’isoletta di Ventotene, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, che nel 1941 diedero alle stampe un pamphlet, il Manifesto di Ventotene, nel quale riprendevano e rilanciavano l’idea federalista come progetto di ricostruzione democratica dell’Europa al termine della guerra. Va evidenziato bene: il seme federalista, prodotto dalla cultura universalistica dell’Illuminismo, si riproduceva e germogliava sul terreno della lotta per la libertà e la democrazia. E va anche sottolineato il fatto che il federalismo del Manifesto di Ventotene non si presentava soltanto come un programma politico ma anche come un programma sociale, rivolto all’emancipazione economica e civile delle «classi lavoratrici».
Ma ecco un problema per gli storici. Ci saremmo aspettati, a questo punto, che la tradizione federalista italiana, rinvigorita da Giustizia e Libertà, venisse ad incontrarsi – su un unico percorso di affermazione democratica e sociale – con la tradizione federalista europea, rivitalizzata dal Manifesto di Ventotene. Incontro che non ci fu, invece, e lascia alquanto perplessi lo scetticismo con cui Salvemini e Lussu accolsero le ripetute richieste di Ernesto Rossi di una loro adesione al progetto federalista europeo.
Fatto sta che per questa incomprensione venne anche meno un possibile innesto sul tronco del federalismo europeo dei valori dell’autonomismo sardo, che pure per merito soprattutto di Lussu saranno recepiti da quegli articoli 5 e 116 della Costituzione italiana che varranno a conferire alla Repubblica un ordinamento per autonomie, ordinarie e speciali.
Oggi che s’impone l’interrogativo sul ruolo delle Regioni in genere, e della nostra in particolare, in una Unione europea che vorremmo riformata in senso federale, ci piace pensare che il compito di operare questo innesto possa essere ereditato da noi.
Allo stato attuale la ripartizione dei poteri tra i diversi livelli istituzionali dell’Unione - Unione, Stati, Regioni, Città-metropoli etc. - è contemplata dal principio di sussidiarietà, affermato per la prima volta dal Trattato di Maastricht del 1992 e ribadito dal Trattato di Amsterdam del 1997 (art. 1 del tit. primo), ma esso sinora è stato applicato essenzialmente ai rapporti tra l’Unione e gli Stati. Un analogo depotenziamento ha subito il Comitato delle regioni, istituito per consentire una maggiore presenza degli interessi regionali nell’attività delle’Unione europea, ma le cui funzioni puramente consultive non consentono che una incidenza molto limitata sulle decisioni comunitarie.
In questo quadro di per sé poco evoluto dei rapporti tra Unione europea e autonomie locali, s’impone ora anche un’azione di contrasto nei confronti della politica sulle regioni della Lega. Errata e dannosa appare specialmente la scelta di attribuire un’autonomia differenziata a Lombardia, Veneto e Emilia Romagna, che da un lato va a ledere la parità di accesso dei cittadini italiani a diritti fondamentali (in primis quelli alla salute e all’istruzione), dall’altro va a incrinare una solidarietà territoriale del nostro Paese già precaria.
Una analoga e disgraziata operazione divisiva il neo-presidente leghista del nostro Consiglio regionale la vorrebbe compiere a danno della Sardegna, avanzando la proposta di costituirvi sul modello trentino due province autonome, di Sassari e di Cagliari. Ma la formazione delle due province autonome di Bolzano e di Trento fu finalizzata, come ben sappiamo, a risolvere un problema di nazionalità (sul confine con l’Austria) tra altoatesini di lingua tedesca e trentini di lingua italiana. Esiste un simile problema anche tra sassaresi e cagliaritani?
Tra le tante bislacche invenzioni nazionalitarie questa è la più ridevole. E poiché siamo ad Oristano, la capitale storica dell’Arborea, mi sento autorizzato anch’io ad avanzare una proposta originale: perché non anche una terza provincia autonoma coincidente con il territorio dell’antico e glorioso giudicato d’Arborea?
Lasciando ovviamente a Olbia e Nuoro piena e legittima facoltà di rimostranza.
Oristano 4 maggio 2019