Sinistra Autonomia FederalismoRipartiamo dalle idee e dai territori
Il percorso che ha portato alla creazione delle istituzioni europee dal 1950 ad oggi è stato costellato da alti e bassi, da momenti di forte accelerazione e da periodi di crisi profonda, che hanno fatto temere per la tenuta del progetto stesso. Nonostante questi periodi critici il percorso europeo non si è mai interrotto, anzi ne è uscito spesso rafforzato. Così è accaduto agli albori, quando, in seguito al fallimento della Comunità Europea di Difesa, nelle more delle discussioni successive alla Conferenza di Messina, la creazione della Comunità Economica Europea e dell’Euratom sembrò arenarsi a causa della diffidenza di alcuni stati nel portare a conclusione il nuovo trattato che si profilava all’orizzonte. Il contesto internazionale, che negli anni precedenti aveva favorito l’istituzione della CECA, in seguito all’avvio della “coesistenza pacifica” non aiutava certo il rilancio. Un rilancio che era ritenuto necessario, sia in seguito alla crisi degli Stati nazionali, sia alla necessità di ampliare il percorso unitario nella ricerca di un’unione dei mercati, che avrebbe favorito i commerci e dove la resistenza dei paesi membri alla perdita di sovranità avrebbe trovato meno contrasto (Morelli, 2011, p. 93). La ripresa del progetto comunitario fu tentato nuovamente da Jean Monnet, il quale riteneva necessario che i paesi europei trovassero un mercato comune che potesse concorrere, avendone qualche possibilità, con i mercati americani, con la Russia, la Cina e in futuro l’India. Il mezzo per contrastare questi colossi era inevitabilmente la creazione degli Stati Uniti d’Europa o per lo meno di un grande mercato in grado di reggere la pressione esercitata da mercati esteri così grandi (Jean Monnet, 1978, pp. 297-98). Dal momento che la creazione degli Stati Uniti d’Europa in un periodo così breve sarebbe stato comunque impossibile, Jean Monnet decise che fosse giunto il momento di contemplare nel progetto una serie di settori fino ad allora esclusi dal processo di creazione delle istituzioni europee, e che ora andavano inclusi, quali i mercati, l’agricoltura, l’unione doganale, già proposta dagli olandesi (Scamacca del Murgo al MAE, t del 18 aprile 1955, DPII, Serie A, 2017, D. 7). Il progetto di riforma, preso in carico dal ministro degli esteri Belga, Paul-Henri Spaak fu rilanciato nel 1955, in seguito alla ratifica del Trattato sull’Unione Europea Occidentale. L’idea di Spaak, sulla traccia di quanto aveva pensato Jean Monnet, era quella di ampliare le competenze della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio. Oltre ai settori individuati da Monnet sarebbe stato opportuno includere anche i trasporti e l’energia, in particolare lo sviluppo dell’energia atomica. Il modo migliore sembrava essere per Spaak la convocazione di una conferenza in occasione della quale si sarebbe potuto fare il punto della situazione. Nonostante i paesi del Benelux fossero favorevoli ad un nuovo trattato i segnali che provenivano da Francia e Germania erano meno incoraggianti e certamente il ruolo dell’Italia in questo contesto sarebbe stato decisivo per prendere un’iniziativa in tal senso (Spaak a Martino, lettera del 7 aprile 1955, DPII, Serie A, 2017, D. 6). Dopo numerose discussioni fu deciso che la cosa migliore sarebbe stata la convocazione di una conferenza fra i sei paesi membri da tenersi a Messina, per sottolineare appunto il ruolo che il Governo italiano aveva assunto nel promuovere l’iniziativa Spaak-Monnet (Magistrati, appunto riservato del 13 maggio 1955, DPII, Serie A, 2017, D. 22). I risultati della Conferenza di Messina, che come ricordarono i diplomatici presenti, ebbe una gestazione alquanto lunga, non sembrarono all’inizio così promettenti, soprattutto a causa dello scetticismo che sembrava registrarsi in diversi strati della popolazione e della stampa dell’epoca. Nonostante questa partenza non semplice della Conferenza, si decise di avviare le riforme necessarie al doveroso rilancio europeo, anche per tenere legata la Germania al quadro dell’Europa Occidentale, onde evitare che nel suo futuro sviluppo economico, politico e, verosimilmente militare, potesse allentare i legami con gli altri paesi, ed assumere una posizione troppo autonoma e indipendente. La Conferenza, ad ogni modo, decise di intraprendere la strada della ripresa economica, e dell’eventuale creazione di una collaborazione per l’utilizzo dell’energia nucleare (Magistrati a Martino, appunto del 7 giugno 1955, DPII, Seria A, 2017, D. 43). Tutti i ministri presenti si dissero, almeno ufficiosamente, d’accordo nel creare un mercato comune europeo (Nota ufficiosa del 7 giugno 1955, DPII, Serie A, 2017, D. 44). Com’è noto le discussioni successive alla Conferenza di Messina, durate circa due anni, decretarono il rilancio del progetto comunitario con l’utilizzo del sistema “federalistico” o “cooperativistico”, a detrimento dell’ideale “sovranazionale” che avevano inizialmente proposto i paesi del Benelux (Grazzi a Martino, telegramma del 3 giugno 1955, DPII, Serie A, 2017, D. 42) e si conclusero felicemente con la firma dei Trattati di Roma del 25 marzo 1957, presso il Campidoglio.
Nel 1961, avviati la Comunità Economica Europea e l’Euratom, il Regno Unito, resosi conto di aver commesso un errore di valutazione molto grave (Macmillan, 1973, p. 15) decise di procedere con la richiesta di adesione alle tre Comunità, cosa che puntualmente fece nel mese di agosto dello stesso anno dopo aver consultato il neo presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy, e in seguito ad un lungo dibattito alla Camera dei Comuni (Rossi, 2006). La decisione di Londra fu accolta con favore da diversi paesi membri, Italia e Benelux, in primo luogo, ma in modo tiepido dalla Germania, con netta contrarietà da parte della Francia. La partecipazione di Londra al progetto comunitario, seppur auspicata, e addirittura sollecitata dai Sei in altri periodi, a distanza di quasi nove anni dal primo invito, sembrava ormai di difficile attuazione, soprattutto a causa dell’ambiguità britannica nel voler portare avanti la Special Relationship con gli Stati Uniti e la politica legata al Commonwealth, che secondo alcuni avrebbe creato scompensi al bilancio comunitario, e danni all’economia britannica, anche e soprattutto nel settore agricolo. Il presidente Charles de Gaulle in particolare era sicuro del fatto, che non solo la struttura agricola comunitaria non sarebbe riuscita a legarsi perfettamente a quella britannica, ma il bilancio dello Stato ne avrebbe sicuramente risentito, come poi in effetti accadde. Inoltre, Parigi era molto diffidente in merito al legame troppo stretto che il sistema di difesa del Regno Unito aveva con gli Stati Uniti, proprio nel momento in cui De Gaulle cominciava a proporre un legame più solido tra paesi europei e meno dipendente da Washington. Una situazione di ambiguità tale per cui il presidente francese decise di porre il veto all’allargamento al Regno Unito. Questa situazione creo una certa frizione tra i paesi comunitari, i quali invitarono la Francia alla moderazione nei riguardi di Londra. La crisi, che doveva restare confinata nei rapporti tra Londra e Parigi, si espanse a macchia d’olio agli altri paesi europei, molti dei quali consigliando moderazione, cominciarono a fare moral suasion nei confronti del presidente francese, con il quale i rapporti cominciarono a deteriorarsi, un’azione persistente quanto inutile (Rossi, 2006).
Un vero momento di crisi molto forte, sicuramente il primo di una certa gravità, che sembrò quasi a mettere a repentaglio la tenuta del progetto europeo si verificò in occasione della proposta di approvazione da parte della Commissione Europea, presieduta dal tedesco Walter Hallstein, del regolamento sulle risorse proprie, ovvero quelle risorse che la Commissione poteva gestire indipendentemente dalla volontà degli Stati membri, e di alcuni rapporti interni che proponevano di accelerare la creazione di una politica economica-monetaria comune. Sulla possibile risposta europea ai problemi monetari internazionali Parigi era contrarissima e difatti respinse ogni proposta in merito. La politica monetaria, difatti, era vista da De Gaulle come una leva sovrana che la Francia poteva utilizzare per contrapporsi agli Stati Uniti, una politica seguita anche dalla Germania. La Commissione Europea, vedendo insormontabile un veto francese ad una politica monetaria comune, cercò di accelerare proprio sul punto delle risorse proprie il cui regolamento finanziario nel 1965 andava rinnovato e propose di spostarne la gestione dall’esercizio diretto degli Stati, che incassavano i diritti doganali e i dazi agricoli, per poi girarli alla Commissione, direttamente al bilancio comunitario, aumentando nel contempo i poteri di controllo, verifica e decisione della Commissione stessa e del Parlamento Europeo, piegando in questo modo il Consiglio (ove sedevano gli Stati) al volere dei primi due. Il Regolamento fu adottato a maggioranza, con il voto contrario dei rappresentanti francesi. Il Presidente della Commissione, inopinatamente, decise di portare all’attenzione del Parlamento Europeo il Regolamento approvato a maggioranza, senza consultare gli Stati membri e questo fatto diede l’occasione al presidente francese per protestare con veemenza circa una prassi che violava il galateo istituzionale e le regole formali della Comunità. Alla protesta di de Gaulle si sommarono anche le richieste dell’Italia, che nel frattempo si era rafforzata in campo agricolo, per un cambio nel regime dei rimborsi più favorevole rispetto al precedente, aprendo così un fronte diplomatico con la Francia. I delegati francesi, su ordine diretto di Parigi, decisero di ritirarsi dai negoziati comunitari aprendo in questo modo la “crisi della sedia vuota”, risolta soltanto nel 1966 con il “Compromesso di Lussemburgo”, il quale dimostrò che l’investimento che gli Stati membri avevano fatto era talmente importante da aver reso l’esperienza comunitaria un qualcosa di irreversibile e sul quale era importante limare i disaccordi e trovare un compromesso utile per tutti (Calandri, Guasconi, Ranieri, 2016, p. 137-139).
Gli anni Settanta del Novecento, dopo la caduta di de Gaulle e le aperture del nuovo presidente Georges Pompidou, videro il primo allargamento della Comunità, al Regno Unito, alla Danimarca e all’Irlanda. La permanenza di Londra nella Comunità è sempre stata dall’inizio alquanto problematica, con punte di scontro tra il Governo di Sua Maestà e le istituzioni comunitarie, passando per due referendum, intervallati da un aspro confronto ai tempi di Margaret Thatcher. Il referendum per la permanenza del Regno Unito nella CEE si tenne poco tempo dopo l’adesione, perché se è vero che i rapporti con la Francia e con gli altri Stati membri si erano rasserenati lo stesso non si poté dire sul fronte politico interno in quanto il Partito Laburista aveva domandato una rinegoziazione dei termini di permanenza in relazione a diversi aspetti nei rapporti con la Comunità: bilancio, politica economica e monetaria, politica agricola comune e ritenzione di alcuni poteri legislativi in seno al Parlamento nazionale, tra le varie cose (Manifesto del Partito Laburista, 1974). Nel 1975 il Governo a guida laburista negoziò un accordo particolare tra la CEE e il Regno Unito sulle materie oggetto di controversia, e si schierò convintamente per il voto favorevole alla permanenza dentro le Comunità. Il Governo, inoltre, studiò bene tutti gli effetti che il referendum avrebbe provocato e l’impatto di un eventuale risultato ambiguo in quanto al risultato elettorale, che in caso di favore all’uscita avrebbe comportato negoziati lunghissimi con la CEE, nonostante il poco tempo passato dall’adesione, ed addirittura la possibilità di un secondo voto confermativo, nel caso in cui non vi fosse stata una maggioranza schiacciante e univoca al referendum (NA, CAB/129/181/6). Anche il Partito Conservatore, decise di appoggiare convintamente la permanenza di Londra nella Comunità, e il capo dell’Opposizione Margaret Thatcher si disse contrarissima alla convocazione del referendum (https://www.margaretthatcher.org/document/102500). Vista la forte campagna condotta dal Governo britannico a favore della permanenza, e il sostanziale apporto dato anche dal partito Conservatore, il Referendum diede un’amplissima maggioranza per la permanenza nella CEE con oltre 17 milioni di voti a favore su un totale di circa 26 milioni di votanti. Nonostante ciò i rapporti tra il Regno Unito e l’Europa rimasero sostanzialmente sempre burrascosi e in più occasioni furono avanzate richieste di accordi diversi, rinegoziazioni, richieste di esclusione dai processi decisi da tutti gli altri Stati membri o, più semplicemente, posizioni in controtendenza. Un secondo momento di scontro tra Comunità e Regno Unito si ebbe quando Margaret Thatcher varcò il portone di Downing Street come Primo Ministro. La signora Thatcher, difatti, chiese a gran voce un riequilibrio dei conti e una perequazione a favore del Regno Unito, che a suo dire spendeva troppo nella politica agricola comune, già oggetto della rinegoziazione del 1974-75, più di quanto ricevesse indietro. La Thatcher condusse una battaglia durissima in seno alle istituzioni comunitarie e fu alla fine accontentata dopo circa due anni di negoziati, e i buoni uffici del presidente del Consiglio italiano Francesco Cossiga (Thatcher, 1993, pp. 51-55).
All’inizio degli anni Ottanta del Novecento, i paesi membri della Comunità, e anche molti parlamentari europei, in seguito all’elezione diretta del Parlamento, a partire dal 1979, cominciarono a rendersi conto del fatto che la Comunità aveva bisogno di ringiovanire le proprie istituzioni. Uno dei movimenti politici che più alacremente si muoveva in questa direzione era il Movimento Federalista Europeo. Il principale leader di questo movimento, l’italiano Altiero Spinelli, era convinto che fosse ormai imprescindibile l’avvio di un serio progetto di riforma dei trattati, e ispirò, insieme ad un movimento trasversale di parlamentari, un progetto per addivenire ad un trattato sull’Unione Europea. L’idea era quella di una riforma in senso democratico ed efficiente che seguisse gli ideali federalisti, una riforma che razionalizzasse i trattati fondativi delle Comunità e che risolvesse finalmente due nodi mai sciolti: la cooperazione politica europea e la moneta unica. Le tre comunità esistenti sarebbero state unite in un'unica entità l’Unione Europea e si sarebbero dovuti introdurre istituti come quello della cittadinanza europea e il principio della sussidiarietà. In questo contesto il Parlamento Europeo avrebbe avuto un ruolo legiferante insieme al Consiglio Europeo. I tempi non erano maturi perché l’idea avuta da Spinelli e dal gruppo federalista potesse attecchire, ma a partire dal 1987 i paesi membri cominciarono a rendersi conto che l’Europa aveva bisogno di riforme interne e tra il 1985 e il 1992, complice anche la caduta del Muro di Berlino, si avviarono le agognate riforme, dapprima con l’Atto Unico Europeo, e in seguito con il Trattato di Maastricht, che spianò la strada alla moneta unica e a molte delle idee di Spinelli, tra cui la cittadinanza europea e la trasformazione delle Comunità in Unione Europea (Calandri, Guasconi, Ranieri, 2016, p. 197-198). Le idee di Spinelli e del MFE, com’è noto, venivano da lontano, dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, quando dal confino di Ventotene i popoli europei venivano richiamati al comune destino. Il Manifesto, intitolato “Per un’Europa libera e unita. Progetto di un manifesto”, proponeva la creazione di un’Europa dotata di una struttura organizzata e militante, formata da stati federati, e quindi non più da stati-nazione e prospettava un nuovo patto sociale europeo, una nuova cultura politica e una nuova democrazia. Naturalmente lo scritto riprendeva le idee che nel secolo precedente e durante i primi quarant'anni del 1900 erano state discusse tra le élite, e rifletteva la situazione politico-sociale che si viveva al momento in cui fu scritto. In poche parole diventava un tentativo programmatico di ricostruzione post-bellica, e individuava nella pace europea la chiave di volta per la pace mondiale (Morelli, 2011, pp. 15-6). Oltre che in Italia e Germania, anche in Francia si svilupparono movimenti di espressione e fede europeiste, dei quali uno degli ispiratori fu Leon Blum, che con il suo libro “L’Echelle Humaine” cercò di chiarire che si doveva porre un limite al potere degli Stati Nazione, arrivare all’interdipendenza dei popoli e arrivare a creare una federazione europea che fosse garante di pace, democrazia e mirasse alla riforma della società. In realtà, Leon Blum, si spinse oltre ammettendo che l’entità federativa europea avrebbe dovuto dotarsi di uno strumento di difesa comune (Bitsch, 1996, p. 24-25). L’esercito comune sarebbe dovuto servire per evitare che in futuro vi fosse di nuovo il ricorso alle armi tra paesi fratelli. L’idea era quella che se vi fosse stato un esercito comune vi sarebbe stato un comune obiettivo di difesa che avrebbe evitato guerre fratricide.
Le idee del Movimento Federalista Europeo, seppure molto forti e, seppure in seguito al rilancio europeo degli anni Ottanta del Novecento riuscirono a dare una spinta alla riforma della Comunità Europea, non ebbero successo nell’imprimere una vera svolta di stampo federale, soprattutto a causa della forte opposizione britannica. Il mandato della signora Thatcher, difatti era proseguito fino al 1990 e così gli alti e bassi dei rapporti tra Regno Unito e Comunità Europee, un rapporto a corrente alternata che non cessò neppure quando al numero 10 di Downing Street arrivò, in seguito alle dimissioni del primo ministro, l’ex Cancelliere dello Scacchiere John Major. Fu difatti sotto la sua amministrazione che si arrivò all’approvazione del Trattato di Maastricht, e alla definizione del percorso verso la moneta unica, l’Euro, che avrebbe implicato la cessione della politica monetaria alle istituzioni comunitarie, in occasione del quale John Major chiese ed ottenne forse il più pesante, anche se non l’unico, dei cosiddetti opt-out, il diritto del suo Paese di restare fuori dal processo della moneta comune, pur restando all’interno dell’Unione Europea, nuovo nome delle Comunità (Calandri, Guasconi, Ranieri, 2015, p. 261).Un secondo opt-out, quello sul capitolo sociale, ottenuto da Major nel 1992, fu poi abbandonato dal Tony Blair nel 1997 e fu forse una delle con-cause del favore verso i movimenti per l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, culminata con il referendum del 2016. Quando il New Labour di Tony Blair si accingeva alla campagna per le elezioni generali del 1997 si decise, anche per assicurarsi il favore delle parti più a sinistra del partito, di ristabilire i diritti sindacali aboliti dal Governo conservatore nel 1984 e di accedere al Capitolo Sociale europeo, dal quale il Regno Unito era stato escluso. Una volta insediata la nuova amministrazione, il Governo si mosse di conseguenza ritirando la clausola dell’opt-out nel capitolo sociale, e accedendo pienamente al Trattato di Amsterdam (Barlow, 1997, p. 228).Nel corso degli anni i Governi laburisti adattarono sempre più la legislazione britannica alle direttive europee, così come richiesto dai trattati a cui il Regno Unito partecipava. L’arrivo del governo di coalizione tra i Conservatori e i Liberali nel 2010, in seguito alla vittoria di misura del partito conservatore alle elezioni generali conservò sostanziale armonia nei rapporti con l’Unione Europea anche a causa del forte europeismo del partito Liberal-Democatico, nonostante sulla spinta del partito Conservatore, al cui interno si stava formando una forte corrente euroscettica, furono approvati dei paletti che evitavano ulteriori perdite di sovranità da parte del Paese. Gli anni del Governo di coalizione furono anche il periodo nel quale il partito indipendentista del Regno Unito, lo United Kingdom Independence Party, UKIP, che nella sua piattaforma aveva in progetto il ritiro dall’Unione Europea, crebbe di visibilità in modo esponenziale fino ad arrivare all’exploit del 2014 nelle elezioni amministrative e in quelle europee. Data la forte ascesa dell’UKIP, che prendeva molti voti a destra, facendo quindi concorrenza al partito Conservatore il Primo Ministro uscente David Cameron dovette scendere a patti con la parte più euroscettica del suo partito in vista delle elezioni politiche generali del 2015. Il Manifesto elettorale del partito Conservatore tese a garantire la prestanza economica britannica in contraltare alle performance del resto dell’Unione Europea e nella campagna elettorale si stigmatizzò il diritto del Regno Unito nel far fronte in modo deciso alle pressioni che arrivavano dai paesi del Sud dell’Unione Europea nella ormai soverchiante crisi dei migranti. Non solo, si cominciò a discutere se non fosse il caso di limitare i diritti dei cittadini europei che si spostavano, in osservanza delle regole europee di libera circolazione, dal proprio paese al Regno Unito, un qualcosa, per le caratteristiche del diritto europeo, impensabile. Nel timore di perdere le elezioni Cameron e il partito conservatore arrivarono ad accettare l’idea di un referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione, il tutto in chiara funzione anti-UKIP.
Le elezioni politiche generali britanniche del 2015 dimostrarono che la forza reale dell’UKIP non era così determinante, tanto che il partito Conservatore vinse a sorpresa le elezioni con una maggioranza autonoma tale da permettere la formazione di un governo monocolore. Le pressioni interne dei membri euroscettici del partito continuarono e il Primo Ministro dovette cedere alle promesse fatte in campagna elettorale, concedendo il referendum per l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Così com’era avvenuto quarant’anni prima anche il Governo guidato da David Cameron cercò, prima di affrontare le urne, la via del negoziato con l’Unione Europea in modo da ottenere clausole favorevoli nell’ambito sociale che andassero incontro alle promesse inserite nel manifesto elettorale. L’Unione Europea si dimostrò molto accomodante con Londra e fu approvato un accordo che garantiva al Regno Unito maggiore flessibilità nel capitolo sociale. Tuttavia, a differenza del 1975 il Governo britannico, molto debole al suo interno a causa delle correnti di partito, tra cui una forte componente euroscettica, non riuscì ad esercitare un ruolo guida nella campagna referendaria, che pure aveva delle forti similitudini a quella del 1975, ove per non spaccare il partito Laburista, in contrasto alla linea del Governo, era stata lasciata libertà di voto. Gli esiti del referendum, sfavorevoli alla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea hanno aperto un confronto molto forte con la Commissione Europea e con gli altri Stati membri, e hanno acceso forti polemiche all’interno del Regno Unito e aperto il dibattito sovranista in molti paesi membri dell’Unione.
Anche l’Italia è stata investita dal vento del sovranismo e dell’euroscetticismo, sia durante la campagna elettorale per le elezioni politiche generali del 2018 sia in seguito alla formazione del nuovo Governo, anche a causa delle politiche attuate nel primo anno dal nuovo Esecutivo, che hanno rinfocolato gli estremismi. L’ondata euroscettica in Italia non si è arrestata neppure con le elezioni europee del 2019, nonostante in molti paesi europei, tra cui diversi paesi del Nord dell’Europa, ma anche in Spagna i partiti di matrice europeista abbiano fatto da barriera alla temuta valanga dei partiti sovranisti. Se si osservano i risultati generali delle elezioni europee, i partiti del gruppo popolare, socialista e i liberali di Alde hanno mantenuto, sommati insieme, la maggioranza assoluta al Parlamento Europeo, nonostante l’exploit della Lega Nord in Italia e del Front National, ora Rassemblement National, di Marine Le Pen in Francia. Se poi si analizzano i sondaggi sulla fiducia riposta dai cittadini nei riguardi dell’Unione Europea, si realizza che il sogno europeo, nonostante i segnali di crisi siano molteplici, è ancora sostenuto dalla stragrande maggioranza degli europei, i quali credono ancora nell’utilità di quanto l’Unione ha fatto per la pace, per i mercati e per il perseguimento degli obiettivi e delle idee portate avanti nel corso degli anni da chi ha creduto nella creazione di quello che nato come un sogno, è poi diventato realtà, con la libertà di circolazione, la cittadinanza europea e il sentirsi parte di un’unica famiglia, con idee diverse, esigenze differenti, ma con la necessità di perseguire gli obiettivi comuni.
Il vento dell’euroscetticismo in Italia è stato particolarmente forte ed è stato alimentato anche in seguito all’avvio della politica economica e monetaria dell’Unione Europea conseguenza dell’approvazione del trattato di Maastricht e sostanzialmente legato al crollo del Muro di Berlino nel 1989. La Germania Ovest, difatti, cominciò all’indomani di quest’evento di portata storica, quasi inaspettato, a pensare alle possibili modalità che potessero portare alla riunificazione delle due Germanie, peraltro prevista dalla Legge Fondamentale di Bonn del 1949. Il cancelliere Helmut Kohl per prima cosa dovette sondare il terreno fra i colleghi della Comunità Europea, ove non tutti erano così favorevoli alla riunificazione. In occasione del Consiglio Europeo del dicembre 1989, tutti si dissero favorevoli in linea di principio alla riunificazione, ma tutti avevano fortissime riserve mentali. L’Italia non fu da meno, e non ne farà mistero, tanto che l’allora Ministro degli Esteri Giulio Andreotti, prendendo a prestito una citazione fatta dallo scrittore francese François Mauriac nel secondo dopoguerra dirà poco dopo la riunificazione: “Amo così tanto la Germania che ne preferivo due”. Oltre agli europei bisognava sentire sia i vincitori della Seconda Guerra Mondiale, dal momento che Berlino era ancora sottoposta al controllo alleato, ma bisognava anche rassicurare la Polonia, la quale teme per i propri confini. Tutte le questioni vennero abilmente superate dal Cancelliere tedesco con una serie di accordi formali, quali il Trattato tra Germania e Polonia del 14 novembre 1990, espressamente previsto dagli accordi sullo Stato finale della Germania del 12 settembre 1990. I leader europei che temevano uno smarcamento tedesco in seguito alla riunificazione vennero rassicurati dal Cancelliere Kohl con un impegno ben preciso l’impegno fattivo e determinato della Germania nella costruzione della moneta unica, con la messa in condivisione della valuta forte dell’Europa, il Marco tedesco, come base per la costruzione della divisa europea, la cui strada è decisa in occasione della firma del Trattato di Maastricht (Duce, 2019).
La creazione della moneta unica, soprattutto in Italia, ha indirettamente alimentato il vento del sovranismo e del nazionalismo, perché con la creazione dell’Euro c’è stata la percezione dei cittadini di aver perso potere d’acquisto, senza rendersi conto, invece, che l’Euro ha rafforzato la stabilità monetaria e nonostante un aumento dei prezzi ha messo al riparo il paese dalle fluttuazioni economiche e ne ha protetto l’economia, seppur al prezzo di enormi sacrifici, in occasione della crisi economica tra il 2008 e il 2011. La nuova moneta unica europea,ritenuta immeritatamente e indirettamente causa, o per lo meno complice, della crisi economica,non è l’unico fattore ad aver alimentato il vento pernicioso dell’euroscetticismo, e dell’ancora più pericoloso sovranismo, perché alla crisi economica, a partire dal fenomeno della Primavera Araba e delle guerre in alcune zone dell’Africa e in Medio Oriente, si è aggiunta la crisi migratoria, che ha raggiunto l’apice nel 2016, quando migliaia di profughi si sono riversati sulla frontiera esterna dell’Unione. L’incapacità di alcuni governi, la politica fortemente xenofoba di alcuni partiti, insieme con un massiccio utilizzo di fake news nei social media e, addirittura, nella stampa, ha portato una parte dei cittadini a spostare l’ago del termometro politico verso la china pericolosa del sovranismo, lettura moderna del mai abbandonato concetto di nazionalismo, combattuto dai grandi pensatori europei dell’Ottocento e del Novecento, perché portatore di instabilità e guerre, in quanto l’Europa è stata costruita eliminando le barriere nazionali e cercando di sradicare tutte quelle politiche inneggianti allo Stato singolo e non al bene comune.
Tuttavia, se si esamina a fondo la ormai lunga strada dell’integrazione europea vi sono stati molti periodi di crisi e quasi di rottura, periodi che hanno fatto temere il peggio. Tuttavia, la Comunità Europea, prima, e l’Unione Europea in seguito si sono adattate nei periodi bui e in occasione dei numerosi periodi di crisi, dovuti sia all’insofferenza degli Stati membri, sia alle crisi causate dall’andamento economico o dalle guerre che hanno flagellato regioni ai confini dell’Unione e in tutti i casi la Commissione europea e gli Stati membri hanno saputo trovare una via d’uscita sia alle crisi, sia alle istanze centripete provocate dalle politiche contrastanti dei vari governi, e in tutti i casi l’Unione è uscita rafforzata dalle decisioni prese dai vari paesi membri e dal Parlamento Europeo per il raggiungimento del bene comune e nel rispetto del motto europeo, uniti nella diversità.
Oristano 4 maggio 2019