Sinistra Autonomia FederalismoRipartiamo dalle idee e dai territori
1. Le disposizioni dell’articolo 116, 3° comma, della Costituzione sono del tutto coerenti con la logica che ispira la complessiva riforma del titolo V che prevede una valorizzazione delle specificità di ciascun territorio e una utilizzazione di tale specificità per accrescere, all’interno di un processo di federalismo cooperativo e solidale, efficienza e sviluppo dell’intera collettività nazionale. Forse in Sardegna siamo nella condizione di meglio comprendere un simile approccio perché nella nostra esperienza c’è stata una fase di particolare intensità dello sviluppo che ha coinciso con la mobilitazione dello Stato, nel primo ventennio delle politiche meridionalistiche (1951-1971), e con la straordinaria mobilitazione in Sardegna, per la realizzazione dell’articolo 13 dello Statuto regionale, con cui si dispone che “Lo Stato col concorso della Regione (dispogano) un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell'Isola.” In quella fase il PIL, fatto 100 l’anno iniziale, crebbe nel Centro Nord sino a 506,55 e in Sardegna sino a 553,50.
Perciò è per noi più facile condividere un maggior coinvolgimento delle Regioni nella gestione della spesa sul territorio come previsto in quella norma con la quale si dispone che, attribuite dalle Regioni una o più tra le competenze di cui all’articolo 116/3, le risorse destinate a tali funzioni e iscritte nello stato di previsione dei diversi Ministeri siano trasferite alla Regione interessata.
Non sono, invece, coerenti con tale logica le modalità attraverso le quali, a partire dai due referendum promossi dalle Regioni Lombardia e Veneto, si è messo in moto il processo di attuazione (che ha coinvolto anche la Regione Emilia Romagna, grazie ad una specifica iniziativa delle istituzioni regionali).
Sin dalle prime mosse è stato chiaro, infatti, che si chiedevano maggiori competenze ma si puntava, soprattutto, a rivendicare maggiore risorse da destinare al territorio, con un recupero del, cosiddetto “residuo fiscale”.
Tale rivendicazione si fondava su una rappresentazione del bilancio pubblico italiano caratterizzato da una spesa pubblica elevatissima nel Mezzogiorno e innaturalmente compressa nel Centro Nord e da un prelievo particolarmente esoso nel Centro Nord e ridotto nel Mezzogiorno, per il combinarsi di lassismo e evasione.
Su queste basi si sono firmati i tre accordi preliminari alla vigilia delle elezioni del 2018 e, subito dopo la costituzione del nuovo governo, si son riprese trattative che hanno accentuato equivoci e distorsioni in materia di risorse (ma anche di poteri).
Vale la pena, dunque, ricostruire in via preliminare, sulla base dei Conti Pubblici Territoriali, il trend della finanza pubblica nel decennio 2008-2017, quello della crisi dalla quale l’Italia sta faticosamente uscendo.
Le tre Regioni che hanno firmato gli accordi preliminari rappresentavano, nel 2017, il 31,98% della popolazione totale (il 31,45% a inizio periodo), producevano il 40,78% del Prodotto Interno Lordo nazionale (in crescita dall’iniziale 39,09%), garantivano il 40,05% delle entrate totali (in lieve crescita rispetto all’iniziale 40,03%). Sul loro territorio ricadeva il 32,64% della spesa totale della Pubblica Amministrazione (il 33,04 della spesa centrale), percentuale superiore a quella della popolazione residente, in particolare per la spesa centrale, la cui ripartizione sul territorio dovrebbe essere ispirata a criteri di riequilibrio.
Si resta, tuttavia, colpiti dallo scarto tra la percentuale di entrate prelevate sul territorio e quella della spesa pubblica contabilizzata sul medesimo territorio. Sembra confermata l’esigenza di operare per la riduzione del “residuo fiscale”.
Ad un esame più attento risulta evidente, però, che la situazione è assai meno squilibrata e, soprattutto, che lo squilibrio non è, in ogni caso, quello che può apparire a prima vista.
Usando un indicatore sintetico (e rozzo), quale il rapporto tra il PIL complessivo di una Regione ed il prelievo (fiscale e contributivo) in essa realizzato, si rileva che la quota del prelievo nelle tre Regioni, rispetto al totale nazionale, si colloca al di sotto di quella del PIL: essa è, infatti, inferiore di tre quarti di punto (40,05% il prelievo, ma quello regionale e locale è solo il 30,75%, contro il 40,78% del PIL) mentre è superiore nel Mezzogiorno di circa 1/2 punto (22,63 il prelievo totale, quello regionale e locale è il 34,06%, contro il 22,27% del PIL) e, sia pur di poco, nel residuo territorio del Centro Nord (37,31%, ma quello regionale e locale è il 35,19%, contro il 36,95 del PIL). In relazione al fatto che il prelievo fiscale non si realizza, genericamente, a carico di un territorio ma a carico dei contribuenti che in esso risiedono, occorre ricordare che, nel 2017, nelle tre Regioni coinvolte nell’accordo il reddito pro capite era di 36.277 €, nella restante area del Centro Nord di 31.172 € (85,93%), nel Mezzogiorno di 18.475 € (50,93%).
Un rapporto che evidenzia uno scarto tra prelievo fiscale e previsione costituzionale, a norma della quale “tutti (dovrebbero) concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva” (art. 53, 1° comma), e “il sistema tributario (dovrebbe essere) informato a criteri di progressività” (art. 53, 2° comma). Occorrerebbe, dunque, cominciare a ragionare sul fatto che di “residuo fiscale” si dovrebbe parlare non quando esiste un differenziale, in valore assoluto, tra il prelievo e la spesa in un territorio ma quando si rilevi uno scarto positivo tra il “prelievo realizzato” e il gettito che dovrebbe derivare da un “prelievo standard” (dalle entrate centrali, regionali e locali ad aliquota base) informato alla “progressività” di cui alla Costituzione.
Per quanto riguarda la dimensione della spesa pubblica essa andrebbe comparata, invece, se si volesse, anche in questo caso, utilizzare un solo indice aggregato, con la popolazione (un’analisi più articolata dovrebbe valutare anche la popolazione per classi di età, la dimensione territoriale e la configurazione orografica, la concentrazione/dispersione degli insediamenti, etc.). La quota della spesa pubblica complessiva nelle tre Regioni interessate è, sia pur lievemente, superiore a quella della popolazione (32,64% contro 31,98%), mentre è nettamente inferiore nel Mezzogiorno (28,53% contro 34,37%, malgrado il contributo degli interventi straordinari, europei e nazionali). La quota della spesa pubblica supera nettamente quella della popolazione nelle residue regioni del Centro Nord (38,82% contro 33,72%). Se, peraltro, si depura il dato di questa ripartizione dai valori relativi alla regione Lazio (nella quale si concentra, come è noto, una quota assai elevata della spesa delle Amministrazioni centrali) e della spesa nelle Regioni speciali (le cui condizioni di privilegio fiscale hanno iniziato a ridursi solo nel 2015), la percentuale di spesa nell’area è inferiore a quella del PIL (20,52 contro 20,84). Resta infine da ricordare che la spesa totale pro capite delle Amministrazioni Pubbliche nelle tre Regioni era pari, nel 2017, a 14.281 €, nelle restanti Regioni del Centro Nord (al netto della regione Lazio e delle Regioni speciali) a 14.341 € e nel Mezzogiorno a 11.640 €. Nel territorio della Regione Veneto la spesa delle Pubbliche Amministrazioni si attesta sui 13.069 € pro capite, il valore più basso tra tutte le Regioni del Centro Nord. Anche il valore della spesa statale è il più basso (9.916 €) tra quello delle Regioni del Centro Nord (esclusa la Regione Marche). È singolare, però, che la richiesta di standardizzazione valga solo per la spesa e non anche per le entrate che, sul territorio della Regione Veneto corrispondono al 43,42% del PIL, contro il 45,74% medio del Centro Nord e il 46,7% del Mezzogiorno.
Non sembra, dunque, sostenibile l’ipotesi che la rivendicazione dell’autonomia differenziata possa essere guidata dall’esigenza di riparare antichi squilibri.
2. Occorre ripartire riprendendo il discorso dall’esigenza di rendere le istituzioni sempre più efficienti e idonee a garantire gli interessi dei propri cittadini e lo sviluppo del paese. In tale prospettiva occorrerebbe fondare le proprie richieste su specifiche vocazioni di un territorio e sull’esistenza di progetti regionali/locali idonei a fornire, risposte più adeguate (per qualità degli investimenti e dei servizi realizzabili con le risorse disponibili) rispetto a quelle garantite dalle amministrazioni centrali. Non pare sufficiente l’affermazione assai generica, identica nelle tre bozze di intesa rese note, secondo la quale: “L’attribuzione di forme e condizioni particolari di autonomia corrisponde a specificità proprie della Regione … e immediatamente funzionali alla sua crescita e al suo sviluppo.” In realtà la motivazione dovrebbe essere fornita, settore per settore, con credibili collegamenti alla realtà e all’esperienza della Regione e con qualche esplicazione delle innovazioni legislative e gestionali che si intenderebbe introdurre.
Solo con un simile approccio l’applicazione dell’articolo 116, 3° comma della Costituzione, potrebbe costituire un contributo a modernizzazione e crescita della regione e, in prospettiva, dell’intero Paese e non uno strumento di ingiustificato privilegio.
È condivisibile la previsione secondo la quale mentre nella fase transitoria si dovrebbe realizzare la gestione regionale con le medesime risorse utilizzate dallo Stato sul territorio regionale in prospettiva si dovr3ebbe passare anche in questi nuovi campi ai costi e ai fabbisogni standard. Occorre, però, avere chiaro, in primo luogo, che tale “standardizzazione” non potrà avvenire avendo come riferimento costi e fabbisogni delle prestazioni non solo nelle tre regioni interessate dagli accordi ma nell’intero territorio nazionale e, in secondo luogo, che per quanto riguarda i fabbisogni standard essi non potranno essere definiti con una presa d’atto dall’esistente, motivato dalla mancanza della domanda di un determinato servizio, ma dovranno divenire un obiettivo da perseguire della politica nazionale. Basta pensare a ciò che un simile approccio significa per la riqualificazione della politica della formazione. Se gli asili nidi sono ormai divenuti in tutte gli studi sulla materia una componente essenziale dell’inserimento nel successivo processo scolare non si potrà semplicemente prendere atto del fatto che in molte aree del Mezzogiorno, magari per una maggiore “tenuta” della solidarietà familiare e/o sociale (e per la mancanza di occupazione femminile), non esiste un’adeguata domanda.
Consegue da una simile impostazione che in tutti i settori oggetto del trasferimento di competenze non vien meno l’esigenza di una politica dello stato centrale sia per garantire che non derivino dal trasferimento riduzione delle prestazioni che, a norma di costituzione, “devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” in modo uniforme, sia per assicurare che di analoghe prestazioni fruiscano, per iniziativa dello Stato i cittadini delle Regioni non titolari di maggiori competenze.
3. Interpretare la politica di attuazione del Titolo V della Costituzione non significa, peraltro, porsi nella prospettiva di semplice rivendicazione di maggiori prestazioni e di risorse adeguate per realizzarle. La legge quadro di attuazione delle politiche di bilancio del sistema delle autonomie regionali e locali prevede altro: il coinvolgimento a pieno titolo del sistema delle autonomie regionali e locali “definizione degli obiettivi di finanza pubblica per comparto, anche in relazione ai livelli di pressione fiscale e di indebitamento”. Si tratta, come si comprende di un richiamo ai “doveri” e non solo ai “diritti”, e, conseguentemente, richiede che il Governo centrale abbia un approccio del tutto diverso alla definizione della manovra di bilancio non limitando il “coinvolgimento” solo alla richiesta di una parere da fornirsi, frettolosamente, tra il 10 aprile (giorno previsto dalla legge per la presentazione del DEF) e una data compatibile con i tempi dell’esame parlamentare e dell’invio all’UE della documentazione nazionale (30 aprile. Una simile prassi ha comportato una grave torsione delle rivendicazioni regionali e locali verso politiche di protesta, per eventuali limitazioni delle competenze di spesa, e di richiesta di maggiori risorse per quanto riguarda le entrate, anche nella forma, tassativamente esclusa dalla Costituzione, di trasferimento a carico del bilancio dello Stato
Il problema si è naturalmente aggravato quando, per applicare la parola d’ordine di “riduzione della pressione fiscale il Governo ha praticato la riduzione della pressione fiscale … altrui, eliminando dalla base imponibile dell’IRAP il costo del lavoro (e, conseguentemente, riducendo gli introiti regionali da questa fonte del 30% circa), azzerando il prelievo INU e TASI sulla prima casa (privando i comuni del fondamentale introito fiscale), e ha sostituito tali entrate proprie con trasferimenti sostitutivi a carico del bilancio dello Stato, che diminuivano la manovrabilità delle entrate e, insieme, la responsabilità degli amministratori locali. Si tornava, malgrado il puntuale divieto costituzionale, ad una finanza prevalentemente derivata.
Un vulnus che viene da lontano. Viene, cioè, da quando, istituite le Regioni, il governo di allora che aveva, che aveva accettato, obtorto collo, la realizzazione di uno dei pilastri fondamentali dell’ordinamento istituzionale repubblicano, le Regioni, pensò di riprendersi, attraverso il controllo dei finanziamenti, quei poteri che aveva ceduto, teoricamente, trasferendo le competenze in materia di legislazione di spesa. La legge delega sulla riforma fiscale del ‘72 non solo non introdusse un tributo autonomo per le Regioni che cominciavano allora a funzionare (le entrate ILOR divennero, rapidamente, un fondo manovrabile nel bilancio dello Stato), ma addirittura soppresse i tributi fondamentali degli Enti locali, lasciando loro pochi tributi ai margini.
Questa politica di limitazione dell’autonomia impositiva dei poteri regionali e locali non ha mai visto una vera opposizione dei soggetti interessanti che, anzi, ben volentieri, si sono resi complici di tale deresponsabilizzazione, accontentandosi di contrattare il livello dei trasferimento sostitutivi.
L’autonomia di bilancio del sistema regionale e locale è stata gravemente violata anche sul versante delle politiche di spesa grazie ad un’applicazione distorta di una disposizione della legge generale di contabilità. L’art. 21, comma 1 ter, lettera g, della legge 31 dicembre 2009 (e successive modificazioni e integrazioni), prevede infatti che le indicazioni del DEF per garantire le modificazioni “eventualmente necessarie a garantire il concorso degli enti territoriali agli obiettivi di finanza pubblica” si attuino con un apposito articolo della legge di bilancio. Si tratta di una formulazione del tutto condivisibile. Meno condivisibile è, invece, che, una disposizione, prevista come “eventuale”, sia utilizzata come modalità “normale” di regolazione, con cadenza annuale, della finanza regionale e locale: si elimina, così, ogni respiro pluriennale nella impostazione dei bilanci regionali e locali. Una prassi, dunque, che costituisce evidente violazione della sostanza dell’autonomia di bilancio, con la conseguenza nefasta di orientare verso interventi di corto respiro le risorse regionali e locali. Se si considera che, malgrado la tendenza alla ricentralizzazione, la spesa regionale e locale corrispondeva, ancora nel 2017, al 12,59% del PIL (il 25,61% della spesa pubblica nazionale, compresa quella per interessi e previdenza ) si comprende il danno di una simile, quasi obbligata, torsione, le cui conseguenze negative per lo sviluppo del paese dovrebbero essere evidenti.
Se l’attuazione del Titolo V, ivi compresa quella dell’articolo 116, 3° comma, non si inserisce in un quadro sistemico di piena responsabilità sul versante delle entrate e della spesa, con respiro pluriennale, è del tutto evidente che la gestione di un sistema di “governance” multilivello sarà inevitabilmente sottoposta a tensioni e conflittualità insostenibili. Il rischio di una oscillazione tra dissoluzione della Repubblica e brutale ricentralizzazione è evidente. Questo rischio è tanto più grave se si considera che per la particolare “resistenza” delle norma di finanziamento rispetto a modifiche non concordate tra Stato e Regione, tutte le Regioni, anche quelle a statuto speciale, saranno … forzate ad inseguire un’attuazione dell’articolo 116, tendenzialmente dell’ampiezza di quella avanzata dalla Regione Veneto. La Costituzione prevede, infatti, che le nuove competenze siano “attribuite …, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all'articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata.” La legge 42/2009 prevede, all’articolo 14, che, con la stessa legge, si provveda “all'assegnazione delle necessarie risorse finanziarie”. Ma la legge di cui all’articolo 116 “è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata.” Ciò significa che non potrebbe essere modificata senza il consenso della Regione e che, in considerazione del fatto che le competenze (e le risorse) aggiuntive si innestano su un corpo di competenze (e di risorse) ordinarie, l’intero finanziamento in quei settori risulterebbe immodificabile senza una complessa procedura preliminare di singole modificazioni della legge rinforzata. Un quadro impraticabile che renderebbe giustificabile un ritorno al centralismo.
Se, come io continuo a pensare, la piena responsabilizzazione di tutti i soggetti istituzionali e sociali è essenziale per uscire dalla crisi che l’Italia attraversa è auspicabile, dunque, che il Titolo V venga attuato nella sua interezza e che, invece di cercare improbabili scorciatoie (come l’eliminazione, di fatto, delle competenze concorrenti sia nella versione “veneta” dell’applicazione del 116, 3° comma, sia nella versione “centralizzante” della riforma costituzionale “Renzi-Boschi”), si prenda atto che ciò richiede una leale cooperazione tra tutti i livelli di governo, valorizzando le sedi di raccordo, dalla citata “conferenza per il coordinamento della finanza pubblica” al sistema delle Conferenze (Stato-Regioni, Stato-Autonomie, Unificata, di cui al Decreto Legislativo 28 agosto 1997, n. 281) e coinvolgendo tutti in una comune responsabilità.
Cagliari, 14 ottobre 2019.