Sinistra Autonomia FederalismoRipartiamo dalle idee e dai territori
Per l'Europa Federale delle Autonomie e dei Diritti Civili e Sociali - Benedetto Bàrranu
Intendo sviluppare le mie valutazioni sull’attuale difficile condizione dell’Unione Europea attorno a tre questioni essenziali. La prima è che la crisi dell’UE rischia di provocare una progressiva emarginazione di tutti i Paesi europei nel contesto geoeconomico mondiale. Se confrontiamo le classifiche del PIL dei primi 20 Paesi del mondo del 2017 rispetto a quelle del 2013 ci rendiamo conto dei cambiamenti profondi nel peso economico, produttivo e commerciale, avvenuti in soli cinque anni. Ai primi tre posti troviamo la Cina, gli Usa e l’India che producono il 66,7% della ricchezza mondiale. Seguono Giappone e Germania tallonati da Russia, Indonesia e Brasile .L’Italia, che prima era nella 6-7ma posizione, ora è dodicesima, dopo Gran Bretagna, Francia e Messico. Far uscire l’Unione Europea dalla grave crisi nella quale si trova è,quindi, un’esigenza vitale. Ancor più per Paesi in gravi difficoltà come l’Italia: non solo per l’elevato debito pubblico ( peraltro affiancato da un indebitamento privato fra i più bassi in Europa), ma soprattutto per il progressivo indebolimento della sua struttura industriale, i gravi ritardi nelle infrastrutturazioni materiali e immateriali fondamentali, le carenze nella ricerca, la scarsa produttività delle strutture pubbliche, l’acuirsi drammatico del divario fra Nord e Sud. Noi, assieme agli altri Paesi europei, abbiamo necessità di rafforzare il ruolo politico ed economico dell’Europa. Obiettivo non facile, vista la difficoltà degli organismi europei nell’assumere decisioni sulle questioni fondamentali che sono sotto gli occhi di tutti noi e che incidono negativamente nelle coscienze e negli orientamenti dei cittadini europei. Pesano la crescita enorme delle diseguaglianze, l’incapacità di affrontare questioni drammatiche come quelle delle immigrazioni ( che induce una lotta fra le vittime interne ed esterne delle diseguaglianze: il disoccupato italiano che vede nell’immigrato colui che gli toglie il lavoro), le attenzioni delle strutture europee rivolte ad aspetti burocratici dei pur importanti parametri finanziari e la disattenzione verso gli obiettivi di integrazione economica,sociale e civile delle diverse regioni europee. La seconda considerazione è relativa a quanto sta avvenendo nella gran parte dei Paesi europei come conseguenza dei limiti gravi nella costruzione dell’Unione Europea: l’esplosione dei populismi e delle chiusure nazionalistiche. Ultimo dato, particolarmente pericoloso per il suo peso politico ed economico, è quanto è avvenuto in Italia. Se il populismo fosse il connotato di alcuni Paesi si potrebbe dire che è la conseguenza di gestioni interne poco avvedute. Quando il populismo antieuro e anti UE si diffonde in tutti i Paesi che ne fanno parte e ovunque sta condizionando le politiche di quasi tutti gli Stati, da quelli dell’Est alla Francia, dall’Italia all’Austria fino ad arrivare alla situazione attuale della Germania,vuol dire che i problemi non riflettono solo i limiti delle politiche dei singoli Paesi, ma soprattutto quelli delle politiche europee. Senza sottovalutare le cattive gestioni interne di tanti Paesi europei, dalla Grecia che falsificò pesantemente i suoi bilanci all’Italia che, invece di utilizzare gli spazi enormi offerti dal 2001 al 2008 con l’ introduzione dell’euro e con i bassi tassi d’interesse di cui per anni abbiamo potuto beneficiare, è tuttavia evidente che questa crisi gravissima dell’Europa fotografa in modo lampante non solo i limiti di singoli Paesi, ma soprattutto i limiti gravi nella costruzione dell’UE. Non è difficile individuare questi limiti: attenzione ai parametri di bilancio e al livello dei prezzi, assenza di una politica fiscale comune; limiti del ruolo del Parlamento europeo, unico organo eletto dai cittadini europei, ma anche unico Parlamento che di fatto è privo dei poteri fondamentali di un’assemblea elettiva sul piano legislativo e su quello di indirizzo e di controllo degli organi esecutivi; scelte sbagliate in materia di politica economica, conseguente a visioni teoriche monetariste imposte come direttrici univoche e indiscutibili. L’Italia ha recepito tali indirizzi, senza una riflessione adeguata, introducendo nella carta fondamentale della repubblica italiana teorie economiche come l’obbligo del pareggio di bilancio, assolutamente discutibili e discusse. Modifiche purtroppo votate anche dai partiti di sinistra e di centrosinistra. La terza considerazione è che essere tenaci sostenitori dell’Unione Europea non significa dover condividere impostazioni di politica economica che hanno mostrato gravi limiti e distorsioni e hanno riaperto ed aggravato le distanze fra i diversi Paesi invece di favorirne l’integrazione. Vi è, purtroppo, la tendenza, non solo da parte della Germania e degli organi centrali europei, ma anche da parte della stampa più seria ed attenta, a far coincidere la critica alle scelte economiche monetariste e mercantiliste, dimostratesi sbagliate perché inefficaci e causa di crescita delle diseguaglianze sociali e fra Stati, con una critica all’Unione Europea in quanto tale. Io credo che sia, invece, assolutamente corretto e lungimirante sostenere che “ invertire la rotta”, come afferma il premio Nobel Stiglitz in un suo recente libro dedicato ai disastri provocati dal monetarismo imperante da decenni in molte aree del mondo , ma soprattutto in Europa, sia l’unico modo per salvare e ricostruire una visione dell’Unione Europea che abbia l’obiettivo di integrare popoli ed economie, di ridurre le diseguaglianze sociali ed economiche, di ridurre gli squilibri fra Nord e Sud e di partecipare alle sfide della globalizzazione come un insieme di forze e non come una somma di debolezze. In realtà sin dalla impostazione del processo che doveva portare alla’Unione monetaria si era consapevoli dei limiti originari di tale progetto. A cominciare dall’assenza di organi politico-finanziari unitari e dal ruolo limitato della Banca centrale europea, alla quale erano vietati interventi tipici delle banche centrali nella stabilizzazione dei mercati monetari e finanziari. Si riteneva , credo con una consapevole e comprensibile dose di ingenuità e di sottovalutazione dei pericoli e degli ostacoli, che la moneta unica avrebbe favorito e forzato l’accelerazione del processo di costruzione di una Unione federale. Con questo spirito fu anche accettata la individuazione, imposta dalla Germania, dei parametri di convergenza, in particolare di quelli relativi al 60% del rapporto debito-PIL (divenuto tendenziale per merito di Guido Carli, perché altrimenti l’Italia non sarebbe potuta entrare), il disavanzo annuale non superiore al 3% e l’inflazione del 2,5%: parametri che erano quelli della Germania e del marco tedesco, trasferiti all’Euro. Non vi era allora e non vi è adesso alcuna evidenza teorica sulla validità di parametri simili. Del resto basta ricordare quanto accadde quando nel 2010 due autorevoli economisti di Harvard ( Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff), sulla base di una comparazione storica tentarono di dimostrare che un debito superiore al 90% ( quindi ben più del 60%) apre le porte alla recessione. Tesi smentita poco dopo da altri economisti dell’Università pubblica del Massachusetts-Amherst i quali, sulla base della stessa serie storica ampliata negli anni e nei Paesi presi in considerazione, dimostrarono una tesi esattamente opposta: cioè che Paesi con debiti superiori al 90% possono avere ed hanno avuto tassi di crescita del 2-2,5%. Come, peraltro, da anni sostiene il Nobel Paul Krugman citando ad esempio gli elevati tassi di crescita dell’Inghilterra indebitata degi anni ’50. L’impostazione di fondo che è finora prevalsa in Europa è, in sostanza, quella neoclassica che ritiene che il mercato sia tendenzialmente sempre in grado di trovare il suo equilibrio, riducendo al minimo gli interventi dello Stato, nella convinzione che tali interventi falserebbero il percorso naturale di riequilibrio economico e finanziario. Se riflettiamo sulla natura e sui contenuti degli interventi degli organi centrali europei e, spesso, di esponenti politici tedeschi e ancor più spesso del governatore della Banca centrale tedesca, il richiamo ai Paesi mediterranei , secondo loro strutturalmente abituati a sperperare le risorse, è di rispettare i parametri (finanziari e di bilancio) di convergenza, facendo i cosiddetti compiti loro assegnati, cioè le riforme. Quali sono le riforme? Sono la riduzione della spesa pubblica ( che si traduce, come sappiamo, in tagli alla sanità, alle pensioni, al sostegno sociale), la flessibilità nel mercato del lavoro ( cioè riduzione dei controlli nei licenziamenti, riduzione della contrattazione nazionale e quindi del ruolo dei sindacati e sostegno della contrattazione aziendale, con evidente indebolimento della parte più debole, il lavoro), l’espansione di politiche mercantilistiche e di sostegno all’esportazione basate sulla compressione del costo del lavoro più che su un aumento della produttività fondata sull’innovazione e sulla qualità dei processi produttivi, dell’organizzazione aziendale e dei prodotti. La compressione salariale di quest’ultimo decennio ne è la conferma più evidente, con il risultato di ostacolare la crescita della domanda interna e di puntare su una competizione al ribasso, le cui prospettive sono tendenzialmente negative per Paesi come il nostro rispetto ai grandi Paesi emergenti dell’Asia e dell’America del Sud. Sono rari, per non dire inesistenti gli interventi, le sollecitazioni e, se necessari, i rimproveri da parte degli organi europei sui temi della crescita, sulle politiche che possono favorirla, sull’obbligo di utilizzare la spesa pubblica per piani concreti di investimento nelle infrastrutture, nell’istruzione e nella formazione, nella ricerca, nell’ambiente. Si è molto attenti al rispetto dei parametri finanziari, non altrettanto alle politiche di crescita. Il debito va ridotto, ma con politiche di crescita. Senza una politica di bilancio europeo che obblighi i Paesi a realizzare piani di investimento adeguati ad allargare l’occupazione e i consumi la prospettiva di costruire un’Europa federale e integrata viene vanificata. Se crescono le diseguaglianze , i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri aumentano nel numero e nella disponibilità di risorse e servizi (restrizioni nella sanità,pensioni basse, istruzione ridotta per i meno abbienti), è chiaro che il progetto europeo viene ulteriormente indebolito. Nessuno può contestare il fatto che il debito è un problema serio e che occorre avere le risorse per rifinanziarlo, ancor prima di ridurlo. Il punto è che le tesi degli “austerici”, come Krugman ha definito i fautori (Alesina ed altri) della cosiddetta “austerità espansionistica”, si sono rivelate inefficaci. La convinzione che un controllo stretto delle politiche di bilancio e dell’offerta di moneta avrebbe portato, con il recupero della fiducia dei mercati, al riavvio dei processi di crescita, si è rivelata una scelta sbagliata. Quanto è accaduto in Grecia, costretta a tagli pesantissimi che hanno impoverito centinaia di migliaia di persone, non è l’unico modo e non è il modo migliore di affrontare i problemi, se a pagare le conseguenze di errori fatti dai governi sono i cittadini più indifesi. Le misure recessive imposte in Europa ai Paesi più deboli, ricorda Stiglitz, somigliano alle cure medievali basate sui salassi, nella convinzione che i continui prelievi di sangue portino alla guarigione del malato. Per sostenere la crescita, quando gli investimenti privati non sono sufficienti, occorre stimolarli con piani di investimento pubblici in modo da favorire il riavvio dei processi espansivi sul piano produttivo e occupativo. Non basta una politica di contributi, di riduzione delle tasse, di flessibilità (che si trasforma in precarietà) del lavoro per riavviare l’attività produttiva. Le imprese serie producono beni e servizi se hanno la prospettiva di vendere ciò che producono, non perché hanno agevolazioni finanziarie. L’UE e i Paesi Europei possono ritrovare la fiducia dei loro cittadini, oggi facile strumento delle distruttive proposte populiste che vanno pericolosamente diffondendosi, se saranno in grado di proporre, prima di tutto ai giovani,politiche positive, di crescita economica e civile. Non è facile oggi credere in una prospettiva che si basi su una inversione di rotta” nelle politiche europee, ma è possibile, anche perché non ci sono alternative credibili.
Cagliari 25 giugno 2018