Sinistra Autonomia FederalismoRipartiamo dalle idee e dai territori
Il federalismo fiscale è materia molto vasta e strettamente connessa con l’assetto istituzionale del Paese e con la sua qualità sociale. Conseguentemente nel mio intervento focalizzerò solo alcuni fra i più rilevanti dei numerosi nodi politici correlati al tema in discussione in questa assemblea. Spenderò innanzitutto qualche parola sull’idea di Stato e di Società sottesa a differenti modelli di federalismo fiscale. Mi soffermerò poi sullo stato di attuazione del federalismo fiscale come definito dalla nostra Costituzione e sul perché non possa essere condiviso il modello di autonomia differenziata nei termini proposti da alcune regioni del Nord anche in relazione agli aspetti finanziari. Chiuderò il mio intervento con due considerazioni politiche conclusive sulla intrinseca contraddizione del sardo-leghismo e sulla necessità di un buon riformismo nel senso del federalismo cooperativo, solidale e responsabile.
1) Il presidente della Regione Veneto a difesa della proposta (o pretesa) di autonomia differenziata e del relativo regime finanziario, ha richiamato il fatto che essa, supportata da economisti e giuristi di chiara fama, sarebbe fondata sull’ oggettività della scienza economica (e giuridica). Ma il punto in discussione, conflittuale, non riguarda ovviamente i titoli di chi ha elaborato la proposta, ma l’idea di Stato e di società che essa implica. Giova ricordare che le teorie economiche non sono mai neutrali, in quanto supportano diverse visioni dei rapporti sociali e del rapporto fra cittadino e istituzioni pubbliche. Così è anche per il federalismo fiscale, largamente applicato in Stati con ordinamento federale o regionalista, ma secondo valenze sociali molto differenti fra loro.
La tesi fondamentale del federalismo fiscale (Teorema della decentralizzazione, Wallace E. Oates) è che la produzione e l’erogazione dei pubblici servizi avvenga con minor costo e migliore soddisfazione del cittadino quando le responsabilità e gli strumenti fiscali siano allineati con i livelli di governo appropriati. La traduzione pratica di questa tesi comporta immediatamente problemi politico-sociali non riducibili alla soluzione di un qualche algoritmo.
Un primo campo di conflitto politico è quello che si apre fra i sistemi di federalismo fiscale basati sulla competizione e i sistemi basati sulla cooperazione e sul coordinamento di tutti i livelli di governo coinvolti (Richard Musgrave). Nel primo caso si trasferisce nella tassazione e nella produzione dei servizi la logica tipica del gioco spontaneo del mercato. Così accade negli USA. Ma anche nella Unione Europea (una federazione in formazione) la concorrenza fiscale fra gli Stati è la norma: in un mercato unificato questo fatto genera effetti rilevanti e distorsivi sulle economie dei singoli Paesi e, in particolare, delle aree in ritardo di sviluppo.
Nel secondo caso, i sistemi cooperativi, prevale nettamente l’attenzione al funzionamento complessivo del sistema e all’effettivo accesso di tutti ai diritti di cittadinanza. Mentre la Costituzione italiana ha recepito lo schema del federalismo fiscale cooperativo e solidaristico, trasparente e responsabile, la proposta leghista di federalismo fiscale per Veneto e Lombardia si conforma viceversa allo schema competitivo.
Un ulteriore nodo problematico e conflittuale riguarda la distribuzione del gettito fiscale per conseguire un obiettivo di perequazione equitativa attraverso il trasferimento di risorse ai territori con minore capacità fiscale al fine di consentire a tutti i cittadini la fruizione dei diritti essenziali. La perequazione varia fortemente nei diversi schemi di federalismo fiscale concretamente praticati e ne definisce il grado di solidarietà. Negli USA la perequazione interstatale praticamente non esiste al contrario della Germania dove è invece applicata in grado molto spinto. La Costituzione italiana è improntata al federalismo solidale. La perequazione è una funzione che di norma appartiene all’amministrazione centrale, così è anche in Italia; in Germania la perequazione è anche orizzontale, con trasferimenti fra i Lander ma con garanzie costituzionali sulla ripartizione delle risorse.
Tralascio altri punti rilevanti quali ad esempio la ripartizione fra i livelli di governo della competenza a imporre e riscuotere i tributi. Sottolineo invece l’attenzione crescente rivolta, nelle teorie di seconda generazione del federalismo fiscale, alla responsabilità e ai meccanismi per disincentivare i comportamenti scorretti nell’uso delle risorse. Sono sempre più insostenibili, oltre che riprovevoli, i comportamenti di irresponsabilità nella spesa (tanto qualcuno pagherà comunque il conto). Si pensi al caso dei rifiuti: mentre taluni territori hanno organizzato in modo efficiente la raccolta e lo smaltimento, altri non lo hanno fatto, generando oneri ingenti a carico del bilancio pubblico. In ogni caso l’irresponsabilità deve essere fronteggiata con sanzioni e/o con poteri sostitutivi, a garanzia dei diritti dei cittadini.
2) La revisione del Titolo V della Costituzione, entrata in vigore nel 2001, ha definito per tutti gli enti territoriali uno schema di federalismo fiscale fortemente innovativo. La norma fondamentale , l’articolo 119, dispone, in modo equiparato, l’autonomia finanziaria di entrata e di spesa di comuni, regioni, province, città metropolitane con il superamento della finanza derivata. Per gli scopi del mio intervento sottolineo che l’articolo 119 è strettamente correlato con le disposizioni dell’articolo 117, che assegnano alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) concernenti i diritti civili e sociali (sanità, assistenza, istruzione, in parte i trasporti pubblici) che devono essere garantiti su tutto il territorio della Repubblica. La determinazione delle funzioni fondamentali degli enti locali è parimenti riservata allo Stato. I LEP e le funzioni fondamentali devono essere finanziati integralmente anche ricorrendo alla perequazione che è funzione esclusiva dello Stato.
La riforma costituzionale del 2001 che tiene insieme (e contestualmente) gli obiettivi di autonomia finanziaria di entrata e di spesa, di parità di accesso ai diritti e di coesione sociale (prestando perciò attenzione al dualismo del Paese), fu resa possibile dall’azione intelligente del centrosinistra che diede uno sbocco positivo alle spinte autonomistiche e federaliste emerse nel Paese negli anni novanta. Una riforma certamente incompleta ma nella direzione giusta.
Giova ricordare che l’articolo 119, cuore del federalismo fiscale, non è stato mai messo in discussione dai successivi interventi di revisione costituzionale. Il suo impianto non è stato modificato neppure dalla riforma del 2012 sul pareggio di bilancio (che è in realtà un assurdo divieto a contrarre debiti per investimenti.) Questa riforma ha infatti disposto integrazioni in senso vincolistico al 119 ma senza modificarne la struttura. È una delle non numerose disposizioni della seconda parte della Costituzione condivisa dalle forze politiche che si sono alternate al governo.
La legge delega sul federalismo fiscale, la 42 del 2009, in coerenza con il modello delineato nella Costituzione, si pone l’obiettivo di realizzare «autonomia di entrata e di spesa di comuni , province, città metropolitane e regioni», «garantendo i principi di coesione sociale, in maniera da sostituire gradualmente, per tutti i livelli di governo, il criterio della spesa storica», con «la loro massima responsabilizzazione». Questa legge istituisce e disciplina anche il fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale per abitante e dispone risorse aggiuntive ed interventi speciali per lo sviluppo delle aree, nella prospettiva del superamento del dualismo economico del Paese.
Le parole chiave dell’articolo 1 della detta legge sono, dunque, l’autonomia di entrata e di spesa, la coesione sociale, il superamento del dualismo nello sviluppo del Paese, la trasparenza e responsabilizzazione nella gestione delle risorse. È indubbio che la legge 42 del 2009 interpreti in senso estensivamente positivo il contenuto dell’articolo 119 della Costituzione. Un autorevole studioso della materia (Franco Pizzetti) scrive al proposito che si tratta di «un federalismo per unificare il Paese e per rafforzare la democrazia».
Nonostante Berlusconi fosse al Governo, siamo nel 2009, su questa questione si è mantenne un clima positivo. La precedente elaborazione sulla materia non fu accantonata. I Comuni e le Regioni erano ancora in grado di esercitare un ruolo nazionale e di difesa dell’interesse generale. Non casualmente l’opposizione di centrosinistra, in parlamento, si astenne nel voto finale della legge.
Ma che ne è della legge 42/09 a dieci anni dalla sua approvazione? Il corpus normativo approvato in questi anni ha toccato pressoché tutti gli aspetti contemplati dalla legge delega. A questo corpus rinvio per l’esame dettagliato. Nonostante ciò si è tuttavia ben lontani dall’aver conseguito gli obiettivi principali della legge. Le cause sono molteplici ma al dunque sono riconducibili a due, fra loro connesse.
Il clima politico è nel frattempo mutato. È emersa una logica antifederalista pervasiva (Massimo Cacciari). Le autonomie locali e le Regioni sono state il bersaglio continuo di tutti i governi succedutisi attraverso il sistematico taglio di poteri e di risorse. Nessun comparto pubblico è stato risparmiato, scuola e università comprese. La crisi finanziaria e anche un certo discredito originato da frequenti fatti di malcostume in diverse regioni, sono stati utilizzati per alimentare processi di forte neocentralismo.
In un clima di antifederalismo crescente sono stati emanati provvedimenti che rinviano ad altri provvedimenti attuativi di rango secondario, decreti e regolamenti, che in molti casi non hanno visto la luce pur riguardando aspetti cruciali.
Per sintesi di esposizione richiamo solo i suddetti punti cruciali. La definizione con legge dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP, sanità, assistenza,istruzione, in parte trasporto pubblico locale) non è avvenuta. Avrebbe dovuto aversi entro il 2013: l’ultimo rinvio è al 2020. Senza il riferimento dei LEP non è possibile stabilire quali siano i costi delle prestazioni in condizioni di efficienza (costi standard) e i correlati fabbisogni finanziari standard. Quest’ultimo, il fabbisogno finanziario standard, è uno degli architravi della fiscalità federalista perché quantifica le risorse finanziarie necessarie per pagare determinati servizi. Attenzione: anche la definizione del fabbisogno finanziario standard chiama in causa valutazioni eminentemente politiche. Mi spiego con un esempio. La fotografia dello stato dei servizi mette in luce che sono diversamente distribuiti nel Paese, l’Emilia ha più servizi per l’infanzia della Calabria e così via. Deve restare sempre cosi? Perché i servizi crescano laddove sono carenti, è necessario che il fabbisogno sia progressivamente aumentato. I fabbisogni finanziari, una volta correttamente determinati, devono essere confrontati con le entrate fiscali dell’ente (attraverso la definizione della capacità fiscale standardizzata), che dipendono dalla forza dell’economia locale ma sono anche fortemente influenzate dall’evasione fiscale che in valore assoluto è decisamente maggiore dove circola più ricchezza. La differenza fra fabbisogno standard e risorse fiscali proprie, dovrebbe essere colmata con la perequazione integrale delle risorse per il finanziamento dei LEP e delle funzioni fondamentali degli enti territoriali e con la perequazione parziale, riferita alla capacità fiscale, per le altre funzioni. Tutto questo non è accaduto e neppure è all’orizzonte prossimo.
Dal quadro descritto risulta che le componenti essenziali dell’originario disegno federalista sono state vanificate . Per realizzare quel disegno servirà una forte e coerente volontà riformatrice che tenga insieme efficienza, responsabilità e coesione sociale in una situazione di forte sofferenza della finanza pubblica.
3) In questo contesto è ripresa la spinta di alcune Regioni del Nord verso un’autonomia che è all’insegna dell’ognuno per sé stesso e che in una certa fase e in un caso ha assunto caratteristiche eversive. La Regione Veneto ha infatti approvato anche una legge per la indizione di un referendum consultivo sulla questione dell’indipendenza; una legge ovviamente dichiarata incostituzionale. Ma anche quattro quesiti per altri referendum sulle caratteristiche dell’autonomia rivendicata, sono stati dichiarati non procedibili per violazioni della Costituzione e della legge. Due referendum sull’avvio del procedimento di rivendicazione dell’Autonomia differenziata si sono comunque tenuti simultaneamente in Lombardia e Veneto il 22 ottobre 2017. A queste consultazioni popolari hanno partecipato 5,325 milioni di cittadini, un dato politico che non si può ignorare. (Nel Veneto la partecipazione è stata di oltre il 57% degli aventi diritto, con 2 milioni e trecentomila elettori; in Lombardia hanno partecipato 3.025.000 elettori).
Successivamente a questi fatti, nel febbraio 2018, sono stati sottoscritti, dal sottosegretario delegato per la materia del governo di centrosinistra, accordi preliminari con Lombardia, Veneto e Emilia Romagna. Limitandoci alla sola parte finanziaria, si può affermare che quegli accordi destano insuperabili riserve perché rimettono a una Commissione paritetica l’accordo su costi e risorse. Ma non è questa una partita che possa giocarsi caso per caso e per di più all’interno di una Commissione. Inoltre, per il fabbisogno standard si fa riferimento al gettito maturato nella Regione; un riferimento, dunque, non correlato ai costi e che ha una ragione d’essere solo ai fini dell’aumento delle proprie risorse.
Ancora più inaccettabili sono le bozze dell’intesa discusse fra queste Regioni e il Governo gialloverde.
Senza entrare nella descrizione tecnica, dirò che la formulazione della norma finanziaria determina uno spostamento automatico di risorse a prescindere dal costo effettivo dei servizi e delle risorse già disponibili, con la conseguenza di una contestuale deprivazione di risorse per gli altri territori. Anche altre norme puntuali hanno ricadute sull’insieme del Paese. Mi riferisco per esempio alla proposta di regionalizzazione del gettito dell’accisa sul gas rigassificato e del gas coltivato nel territorio del Veneto.
4) Nell’inevitabile scontro Nord Sud generato dalle proposte sopra accennate, ha ripreso fiato la descrizione del Mezzogiorno come terra della cattiva amministrazione e dello spreco di grandi risorse pubbliche. Se è vero che i casi di mala amministrazione abbondano al Sud (ma non sono neppure infrequenti al Nord), i dati dei Conti Pubblici Territoriali riferiti al Settore Pubblico Allargato smentiscono la narrazione di un Mezzogiorno drenatore di risorse pubbliche. In proposito richiamo alcuni dati.
Le spese pubbliche in conto capitale, misurate nell’arco temporale 2000- 2016, in euro a valore costante 2010, valgono mediamente 1420 €/ pro capite nel centro nord e 1272 €/ procapite nel sud. Si tenga conto che nel dato relativo al Sud sono comprese le risorse aggiuntive per la coesione territoriale che valgono più della metà della spesa complessiva in conto capitale. La spesa ordinaria dello Stato ha dunque agito nel senso di allargare il divario fra Nord e Sud del Paese. A correzione di questa situazione , la legge 118/2017 stabilisce che la spesa pubblica ordinaria debba essere coerente con la distribuzione della popolazione, ma poiché questa legge non prevede sanzione, è probabilmente destinata a restare lettera morta. E’ significativo, a proposito della spesa per i servizi essenziali, il dato della spesa sanitaria, nel 2016 essa vale 1838 €/pro capite nel Centro Nord e 1575 €/pro capite nel Sud.
5) Anche la Sardegna è direttamente interessata al come si attuerà l’Autonomia differenziata sebbene l’attuale governo regionale ignori il tema e agisca come se la nostra speciale autonomia ci isoli dagli effetti qualunque essi siano. Limitandomi ai soli aspetti del federalismo fiscale richiamerò che la finanza delle autonomie speciali sia pure con garanzie statutarie (spesso aggirate) è coordinata con quella della Repubblica. Lo Stato ha interpretato, in realtà, il coordinamento come taglio delle risorse generando conflitti anche di carattere costituzionale. Inoltre, la Sardegna per pagare i servizi essenziali, le funzioni fondamentali e le altre funzioni dovrebbe ricevere ulteriori risorse oltre il gettito fiscale generato nel territorio. Le autonomie speciali, infatti, non sono identiche fra loro quanto a disponibilità di risorse. Metto infine in risalto il fatto che i costi strutturali dell’insularità, che sulla base dell’articolo 22 della legge 46/09 dovrebbero essere valutati e pagati, non sono stati mai conteggiati in modo appropriato. Colgo l’occasione di questo dibattito per affermare che la campagna che si è sviluppata in Sardegna sul tema dell’insularità, andrebbe prioritariamente indirizzata verso l’attuazione di quella norma attraverso uno specifico decreto legislativo.
Da quanto detto sopra, tenuto presente che il saldo della finanza pubblica della Repubblica deve restare invariato, si conclude che gli effetti delle riforme in discussione avranno ripercussioni dirette anche nell’isola. Un pubblico dibattito sul tema è , dunque, indispensabile e di questo dovrebbero occuparsi le forze politiche molto di più di quanto già facciano. Questo dibattito dovrà essere indirizzato non solo verso la rivendicazione ma anche sulla questione, fondata, dell’uso inefficiente di una quota delle risorse messe a disposizione delle istituzioni pubbliche sarde, al fine di porvi rimedio. La Regione, inoltre, che rivendica autonomia, deve a sua volta riconoscerla concretamente agli altri soggetti costitutivi della Repubblica quali sono gli enti locali sardi. E al riguardo non si può non stigmatizzare il fatto che persista da sette anni il commissariamento dei territori dopo il referendum sull’abolizione delle province regionali..
Termino il mio intervento con due considerazioni conclusive. La prima riguarda la politica regionale. Le relazioni introduttive hanno mostrato che l’Autonomia differenziata nella formulazione delle Regioni a guida leghista, distruggerebbe la solidarietà repubblicana e attenterebbe alla parità dei diritti di cittadinanza. Vi è, dunque, una strutturale incoerenza politica nell’alleanza sardo-leghista rispetto all’interesse regionale. Il velo di silenzio su questa incoerenza dovrà pure essere rotto. La seconda conclusione è la necessità di riprendere la strada tracciata dalla riforma del Titolo V della Costituzione, per completarne il percorso, compreso la istituzione del Senato delle Autonomie dotato di effettivi poteri. Serve una via autonomista e federalista in Italia e in Europa,dunque. L’istanza autonomista presente in tante aree del Paese ha necessità di una simile buona risposta politica. Questo è il compito di un riformismo che contrasti simultaneamente il neocentralismo statale e la disgregazione nazionale.
Cagliari, 14 ottobre 2019.