Sinistra Autonomia FederalismoRipartiamo dalle idee e dai territori
Chi vi parla ritiene che l’Unione europea, nonostante il momento molto critico che attraversa, rappresenti una conquista straordinaria per il nostro Continente. Una conquista che si può valutare correttamente soltanto disponendosi in una prospettiva storica profonda, rivolta tanto al passato quanto al futuro.
Cercherò di farlo in breve, semplificando senza banalizzare.
Molti sono al corrente dei possibili – per quanto difficili – sbocchi federali dell’Unione; pochi sanno invece che l’idea federale è anche all’origine del processo di unificazione europea. Un’origine tutta «di ragione», per così dire, perché la prima grande costruzione federale, gli Stati Uniti d’America (1787), fu ispirata da uomini influenzati dall’Illuminismo europeo. Tali erano Alexander Hamilton, James Madison e John Jay, autori dei celebri articoli che nel 1788 furono raccolti nel volume Il federalista.
Questi intellettuali americani sostennerola necessità che i poteri del governo federale nelle materie essenziali della difesa, della giustizia e dei diritti civili fossero sovraordinati ai poteri dei singoli Stati e si estendessero a tutti i cittadini americani.
Il costituzionalismo americano, tuttavia, èriuscito a conseguire questi obiettivi soltanto a gradi - passando anche per la guerra civile di Secessione (1861-1865) - e in modo tutt’oggi incompiuto, come mostra l’opposizione incontrata dall’Obamacare, la riforma sanitaria sulla scala federale.
L’esperienza federale americana fu subito recepita in Europa, grazie specialmente a Immanuel Kant, che nel saggio Per la pace perpetua, del 1795, la trascrisse in termini di valore universale. Kant vi denunciava infatti l’anarchia, la barbarie e la conflittualità permanente nelle relazioni tra Stati tutti detentori di poteri sovrani. Soltanto una parziale rinuncia a questi poteri sovrani, con la creazione di «una federazione di Stati» retta da leggi e ordinamenti comuni, avrebbe potuto portare lo stato di diritto nelle relazioni internazionali
In seguito, per tutto l’Ottocento, l’idea federale, pur senza venir mai meno, fu oscurata dall’affermazione dei nazionalismi, che esacerbarono le politiche di potenza degli Stati, avviando l’Europa e il mondo verso il baratro infernale di due guerre mondiali.
E tuttavia è proprio in rapporto a questo quadro politico drammatico – che portò molti intellettuali a paventare il «tramonto dell’Occidente» (OsvaldSpengler), la «crisi della civiltà» (Johan Huizinga), e altri scenari apocalittici – che riemerse l’idea federalista.
Hitler aveva da poco instaurato la dittatura nazista in Germania (1933-1934), quando un intelligente diplomatico scozzese, Lord Lothian, pubblicò un libro, Il pacifismo non basta (1935), che riprendeva la tradizione tracciata daThe Federalist e da Kant sostenendo che soltanto «un’unione federale di Stati» avrebbe potuto mettere fine allo statalismo bellicista e portare «tutto il mondo sotto il regno delle leggi».
A Lord Lothian fece eco qualche anno dopo, nel 1939, un grande economista inglese, Lionel Robbins, che nel saggio Le cause economiche della guerra attribuiva la persistente instabilità economica dell’Occidente, responsabile dieci anni prima del crollo di Wall Street, all’assenza di un governo politico su scala sovranazionale.Come Lord Lothian anche Robbins vedeva perciò la creazione di una «federazione di Stati» come unica possibile soluzione al caos delle relazioni internazionali.
La scintilla del federalismo si riaccese ancora nel 1941, in piena Seconda guerra mondiale, con la pubblicazione del Manifesto di Ventotene. A redigerlo furono alcuni antifascisti confinati a Ventotene – Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni – che rielaborarono l’idea federalista per rilanciarla come progetto di ricostruzione democratica dell’Europa al termine della guerra.
Il fatto ha del miracoloso e un altissimo significato politico e simbolico, perché il seme federalista, prodotto dalla cultura universalistica dell’Illuminismo, si riproduceva e tornava a germogliare sul terreno della lotta per la libertà e per la democrazia. Nella concezione degli autori del Manifesto di Ventotene, e in particolare di Spinelli, la «federazione europea» aveva peraltro anche forti motivazioni sociali, in quanto doveva promuovere «l’emancipazione», politica ed economica delle «classi lavoratrici».
Sulla scia del Manifesto di Ventotene furono fondati nel 1943 il «Movimento Federalista europeo» (MFE) e nel 1947 l’«Unione Europea dei Federalisti» (UEF).
Nel secondo dopoguerra, nonostante lo scetticismo dei ricostituiti partiti italiani, il fermento federalista cominciò ad agire presto nella politica europea. Nel 1951 fu firmato il trattato che istituiva la Comunità europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), con finalità essenzialmente economica, ma che il ministro francese Robert Schuman vedeva come prima tappa verso la creazione di una federazione europea.
Il trattato sottoscritto a Parigi l’anno successivo per l’istituzione di una Comunità Europea di Difesa (CED) sembrava andare proprio in questa direzione. Su consiglio di Spinelli, De Gasperi riuscì infatti a convincere gli altri capi di governo della CECA a inserire in questo secondo trattato un articolo (il 38) che prevedeva l’avvio di un processo costituente per la trasformazione della CECA e della CED in una comunità politica a base federale
Ma la CED non fu ratificata dall’Assemblea Nazionale francese e questo primo tentativo di dotare la Comunità europea di una costituzione finì perciò nel nulla. Per Spinelli e i federalisti europei fu una grave delusione, ma il processo di integrazione europea andò comunque avanti con l’istituzione nel 1957 della Comunità Economica Europea (CEE) e della Comunità Europea dell’Energia Atomica(Euratom).
A questo punto la coesistenza di tre Comunità europee (CECA, CEE, Euratom) da un lato produceva un’integrazione economica ormai irreversibile, dall’altro metteva all’ordine del giorno la necessità del loro coordinamento mediante un governo anche politico. Si apriva così la strada che attraverso l’unificazione e il perfezionamento delle istituzioni comunitarie, avrebbe portato all’approvazione nel 1987 dell’Atto Unico Europeo e nel 1993 del Trattato Istitutivo dell’Unione Europea (più noto come Trattato di Maastricht).
In questo percorso, tanto tormentato quanto grandioso, di creazione dell’Unione Europea (UE), va segnalata un’altra notevole iniziativa federalista di Spinelli. Nel 1984, appena rieletto al Parlamento europeo egli riunì un gruppo di colleghi nel cosiddetto «Club del coccodrillo», che elaborò un progetto di riforma costituzionale in senso federale delle comunità europee. Il progetto fu approvato dal Parlamento europeoa larghissima maggioranza, ma venne poi accantonato per l’opposizione del Regno Unito.
Fu il canto del cigno di Spinelli, che morì due anni dopo. Il suo Trattato di Unione Europea non restò comunque senza frutti perché alcuni suoi contenuti federativi furono recepiti dal Trattato di Maastrichtdel 1993, che disponevauna precisa delimitazione delle competenze attribuite all’Unione el’applicazione del principio di sussidiarietà alla ripartizione delle competenze fra l’Unione e gli Stati aderenti.
Sotto il profilo politico e istituzionale il Trattato di Maastricht rappresentò certamente il punto più alto del processo di unificazione europea, e sembrò anche poter sfociare nell’adozione di una costituzione. Non fu così, purtroppo, perché il testo faticosamente elaborato da una «convenzione» promossa dal Consiglio europeo riunito a LaeKen nel dicembre del 2001, fu sì approvato dal medesimo Consiglio riunito a Roma nell’ottobre del 2014, ma fu poi respinto dai referendum tenuti in Francia e in Olanda.
Nel frattempo la comunità originaria di sei Paesi si era andata ampliando: nel 1972 con Danimarca, Irlanda e Regno Unito; nel 1980 con la Grecia; nel 1985 con Spagna e Portogallo; nel 1994 con Austria, Svezia e Finlandia; nel 2004 con Cipro, Malta, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Ungheria, Polonia, Estonia, Lettonia e Lituania; e ancora nel 2007 con Bulgaria e Romania e nel 2013 con la Croazia. In questo allargamento c’eraun aspetto del tutto positivo, perché l’accoglimento nell’Unione Europea consentiva la transizione pacifica alla democrazia di Paesi ora sottratti a dittature (Grecia, Spagna e Portogallo) ora usciti dal regime socialista (Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Croazia, Ungheria, Bulgaria, Romania, Polonia, Estonia, Lettonia e Lituania). Ma c’era anche un aspetto meno positivoperché la dilatazione geopolitica, etnica e culturale dell’Unione doveva inevitabilmente comportare complessi e difficili problemi di integrazione e di coesione, allontanando nel tempo un approdo costituzionale.
La crisi economica del 2008 ha certamente peggiorato lo stato delle cose, inducendo fattori di crisi, di ineguaglianza e di divisione nei rapporti tra i Paesi dell’Unione. In tal senso hanno pure inciso le correnti migratorie dall’Africa e dall’Asia, cui l’Unione europea non ha saputo far fronte in modo coordinato e solidale. Tra le conseguenze di questi problemic’è stato inoltreil convulso e ancora irrisolto processo della Brexit, che il Regno Unito ha messo in atto senza adeguata consapevolezza della complessità irreversibile di una costruzione economica, civile, politica e culturale protrattasi per settant’anni, e di cui è stato uno dei principali beneficiari.
L’attuale crisi della costruzione europea non è comunque riconducibile soltanto a fattori esterni, poiché è anche derivata dalle politiche finanziarie miopi messe in atto dalla Banca centrale europea, politiche mirate soprattutto al contenimento del deficit di bilancio nei Paesi aderenti, trascurando la lotta alla disoccupazione e il benessere delle popolazioni. Un altro appunto critico mosso all’Unione europea da economisti di grande prestigio - tra gli altri da Joseph Stiglitz e da Amartya Sen - è di aver creato con l’euro una sorta di camicia di Nesso destinata a creare gravi sofferenze alle economie più deboli, come è certamente avvenuto nel caso della Grecia.
A questa critica mossa all’euro manca però la controprova: cosa succederebbe ove si tornasse alle monete nazionali o si creassero due o più aree valutarie?
La soluzione non sembra stare in questa direzione - a nostro avviso - ma in un ripensamento delle istituzioni politiche ed economiche preposte all’effettiva integrazione e armonizzazione delle politiche comunitarie,non solo di bilancio bensì pure industriali, salariali e fiscali. Ripensamento che implicaun diverso bilanciamento e ripartizione di competenze, oggi non sempre chiaro e funzionale, tra gli organi di governo dell’Unione europea, tra i quali il Parlamento, l’unico di diretta espressione dei cittadini, appare il più debole.
All’Unione europea non si può comunque rinunciare per alcuneragioni decisive, tra le tante che si potrebbero allegare.
La prima ragione è che l’Unione ha assicurato ai paesi aderenti settant’anni di pace, mai conosciuti prima nella loro storia. E di cui non potrebbero essere sicuri per il futuro ove i sovranisti e i loro compari populisti si impadronissero del timone e riuscissero a balcanizzare l’Europa.
La seconda è che decenni di costruzione europea hanno creato una nuova e più inclusiva cittadinanza, quella europea appunto, che si è sovrapposta senza cancellarle alle cittadinanze nazionali.
La terza è che la spinta unitaria dell’Europa è stata sin dall’inizio orientata dal riconoscimento dei diritti e delle libertà fondamentali dell’uomo (dichiarati nel 1950 dalla Convenzione europea e ribaditi nel 2000 dalla Carta di Nizza), il cui rispetto è stato richiesto non solo agli Stati aderenti all’Unione, ma anche alle decine di Paesi africani, asiatici e caraibici (area ACP) che con essa hanno stipulato accordi di cooperazione.
Ovviamente tutto questo può interessare molto poco chi nel proprio orizzonte ha soltanto la nazione o la piccola patria, ma non è così per chi guarda al futuro d’Europa sulla traccia del progetto federalista di Spinelli. Un progetto che ha messo al centro della politica e dell’economia la libertà individuale, ma come «impegno sociale», tesa cioè a perseguire il benessere collettivo con il lavoro, l’assistenza sanitaria, l’istruzione d base, la sicurezza sociale, la partecipazione democratica alle decisioni di rilievo pubblico. Sono gli stessi valori coltivati da quanti combatterono il fascismo e il nazismo.
Ad aver evidenziato queste implicazioni economiche e sociali del federalismo è stato, guarda caso, uno dei maggiori economisti contemporanei, l’indiano Amartya Sen, sposato con Eva Colorni, figlia adottiva di Spinelli, dal quale riconosce di aver derivato molti stimoli alla sua riflessione sui rapporti tra economia, società ed etica.
Iglesias 27 aprile 2019