Sinistra Autonomia FederalismoRipartiamo dalle idee e dai territori
Perché siamo europeisti e federalisti - Gian Giacomo Ortu
Il tema che abbiamo proposto alla discussione di oggi è di enorme portata politica e di civiltà. Nell’impostarlo non possiamo pertanto esimerci dal prendere in considerazione anche le premesse storiche dell’idea e della prospettiva di un’Europa federale.
Siamo poco oltre la metà del Settecento quando Jean Jacques Rousseau, nel suo celebre «Estratto del Progetto di pace perpetua dell’Abate di Saint Pierre», scrive:
«Tutte le potenze europee formano tra di loro una specie di sistema che le unisce attraverso la comune religione, il comune diritto delle genti, i costumi, la cultura, il commercio… Tutte queste cose riunite fanno dell’Europa non soltanto, come l’Asia e l’Africa, una collezione ideale di popoli che di comune hanno il nome e basta, ma una società reale…. da cui nessuno dei popoli che la compongono può scostarsi senza determinare immediatamente dei turbamenti».
Secondo Rousseau questa «società reale europea», intessuta di relazioni spirituali e culturali, giuridiche ed economiche potrebbe trovare un equilibrio politico migliore e più stabile ove si desse una forma di governo federativo.
Non casualmente questa prima idea di un’Europa federale emerge in un quadro storico caratterizzato da monarchie assolute in permanente conflitto per il controllo dello spazio europeo ed extraeuropeo, e come espressione di quella vena di pensiero utopico che attraversa l’intero illuminismo europeo. Un pensiero utopico che all’apparenza non ha rapporto con la realtà, ma è nondimeno capace di fecondarla, come si verificherà ad esempio per le idee sociali e comunistiche di Morelly e di Filippo Buonarroti il cui fermento produrrà il socialismo prima utopistico e poi marxista.
Perché anche l’idea della federazione europea possa attecchire nella realtà il tempo non è ancora maturo, quando le potenze del vecchio continente sono strenuamente impegnate nella conquista e colonizzazione degli altri continenti, in quel movimento espansivo dell’Europa che è stato opportunamente qualificato di «occidentalizzazione del mondo». L’Ottocento è propriamente il secolo in cui secondo lo scrittore anglo-indiano Rudyard Kipling l’uomo europeo si sarebbe caricato del fardello di portare la civiltà alle popolazioni primitive a arretrate dell’Asia e dell’Africa.
Sono ben note le conseguenze di questa missione civilizzatrice dei Paesi europei – cui presto si aggiungeranno gli Stati Uniti d’America e il Giappone – e i benefici che ne sono venuti alle popolazioni extra-europee: schiavitù, genocidi, espropriazioni materiali e culturali, sottosviluppo e fame. Ma anche i trionfi europei hanno dovuto pagare un tributo molto oneroso: e cioè la barbarie e le ecatombe delle due guerre totali, che sono esplose in seno al vecchio continente anche e soprattutto in conseguenza della competizione imperialistica .
Quando viene rilanciata, tra le due grandi guerre, l’idea di una federazione europea si presenta come possibile soluzione alla tragica disunione del vecchio continente, in quanto alternativa agli Stati nazionalisti e totalitari che l’hanno determinata.
I primi protagonisti della discussione sul federalismo europeo sono in Inghilterra il diplomatico Philipp Kerr (lord Lothian) e l’economista Lionel Robbins, e in Italia Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, gli autori del Manifesto di Ventotene, che sono anche esponenti di spicco dell’antifascismo. Il progetto federalista del Manifesto di Ventotene rappresenta una geniale e ardita trascrizione nella dimensione sopranazionale, europea appunto, delle precedenti elaborazioni sul federalismo di Emilio Lussu e di Silvio Trentin che l’avevano inteso come specifica formula costituzionale per la ricostruzione dello Stato italiano post-fascista.
Nel trasferire il discorso federalista dal singolo Stato all’intera Europa, il Manifesto di Ventotene si riallaccia, da un lato alle riflessioni filosofiche di Rousseau e del «Progetto di pace perpetua» di Immanuel Kant, dall’altro alle elaborazioni propriamente costituzionali della raccolta di saggi The Federalist (1787-1788), redatto da Alexander Hamilton, James Madison e John Jay sotto lo pseudonimo Publius.
Il programma federalista del Manifesto di Ventotene ha una forte caratterizzazione anche sociale perché si propone, oltre che la «definitiva abolizione della divisione dell’Europa in stati nazionali sovrani», anche «l’emancipazione delle classi lavoratrici e la realizzazione per esse di condizioni più umane di vita». Un obiettivo, questo secondo, che si dovrebbe conseguire senza pregiudizio per «le gigantesche forze di progresso che scaturiscono dall’interesse [e dall’iniziativa] individuale».
Non è qui il caso di entrare nel merito di un pensiero che si sforza – sul solco della corrente giellina e azionista – di contemperare la tradizione politica socialista-comunista con quella liberale-democratica, ma ci appare opportuno sottolineare che l’attenzione per la dimensione sociale è un fermento che Spinelli e il suo Movimento Federalista Europeo si sforzano di introdurre nella costruzione europea sin dal suo primo avvio.
Nel 1951 si costituisce a Parigi, per iniziativa prevalente dei francesi Jean Monnet e Robert Schuman, la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA). Qualche tempo prima è stato enunciato anche il progetto di una comunità Europea di Difesa (CED), e Spinelli, appoggiato da Alcide De Gasperi, promuove la costituzione di un’Assemblea delegata all’elaborazione dello statuto di una Comunità Politica Europea (CPE), necessaria per la direzione e il controllo del costituendo esercito europeo. Ma questo tentativo di dar vita ad un primo abbozzo di costituzione europea abortisce in breve, nel 1954, per l’opposizione dell’Assemblea nazionale francese, riluttante a cedere quote di sovranità ad un organismo politico sovranazionale.
Tre anni dopo, nel 1957, viene istituita la Comunità Economica Europea (CEE) che Spinelli guarda inizialmente con diffidenza, avvertendola come una deviazione della linea maestra del federalismo politico, per poi rivalutarla come primo embrione della costruzione federale europea. In effetti i successivi sviluppi della CEE confortano in parte questa sua opinione e speranza, con la creazione nel 1962 a Strasburgo dell’ Assemblea parlamentare europea e nel 1968 a Bruxelles della Commissione della comunità europea. Successivamente, sino almeno al Trattato di Maastricht del 1992, il processo di unificazione anche politica della Comunità europea, per quanto lentamente, procede con una certa linearità, tanto da consentire da lì a dieci anni l’adozione della moneta unica.
Il compito di trattare delle successive vicende e problemi della costruzione europea spetta a Christian Rossi. Io mi limito a rimarcare il fatto che nonostante le difficoltà che attraversa in questi ultimi anni il rafforzamento anche politico (e in prospettiva federale) dell’Unione europea non ha alternative, se non negative. A dimostrarlo stanno il lungo periodo di pace – mai conosciuto prima – che l’Europa occidentale ha vissuto dal 1945 ad oggi; i progressi che l’Unione europea continua a segnare nell’affermazione e nella tutela dei diritti fondamentali, quali sono stati enunciati dalla Carta di Nizza del 2000; la formazione in atto, a dispetto dei rigurgiti sovranisti ed esclusivisti, di una identità transnazionale permeata di valori umanistici e solidali.
Ne sono buoni testimoni, credo, i nostri figli e nipoti, quando sono coinvolti nei programmi di mobilità studentesca dell’Unione (Erasmus in primis), quando prestano servizio in Università e centri di ricerca, enti ed imprese dei paesi dell’Unione, o quando sono comunque costretti ad emigrare, e si trovano perciò a vivere in un orizzonte di promesse ed aspettative che per loro è ormai europeo. Senza che debbano per questo rinunciare a coltivare la propria identità di sardi e di italiani.
Se questa Europa che andiamo costruendo cede al riemergere degli egoismi nazionali e delle spinte centrifughe neppure la pax occidentalis sarà un fatto acquisito. Tanto più da quando un presidente americano espresso da una destra ultraconservatrice e illiberale le va lanciando una dura sfida anche sul terreno economico. Una sfida che può arrecare ulteriori lesioni all’welfare state dei paesi della comunità aggravandovi ulteriormente quelle diseguaglianze sociali che negli ultimi venti-venticinque anni sono state prodotte dall’abbandono progressivo e ormai quasi generale delle politiche keynesiane di sostegno dell’impresa e dell’occupazione.
Sappiamo che i sovranismi e i populismi che rodono dall’interno l’Unione europea si alimentano specialmente del timore dell’immigrazione extra-comunitaria. Sappiamo però anche che l’esodo delle popolazioni dell’Asia e dell’Africa verso l’Europa è la conseguenza non solo dei conflitti in atto in vaste aree di questi continenti, ma soprattutto della dinamica dualistica dell’economia «mondializzata» (o se si preferisce globalizzata), che nelle aree forti porta ricchezza e benessere e nelle aree deboli miseria e disperazione. Il fenomeno delle grandi migrazioni non interessa perciò soltanto l’Europa, sul cui confine la dialettica inclusione-esclusione appare però quanto mai serrata e drammatica.
Di fronte a problemi di questa portata è tanto più necessario che l’Europa esprima una politica unitaria e condivisa, cosa ben difficile se le decisioni politiche di fondo rimangono prerogativa neppure del Consiglio dei ministri, ma dei capi di governo degli Stati più forti. Lascio ad Andrea Deffenu il compito di valutare le condizioni istituzionali perché la costruzione europea muova nella direzione auspicata dal tema di questo incontro: un’Europa federata fondata sulle autonomie e orientata a rispondere ai bisogni sociali delle popolazioni e al rispetto dei diritti umani e di cittadinanza.
Cagliari 25 giugno 2018