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Una società socialmente e politicamente instabile - Remo Siza
In Italia, in questi ultimi anni, sono cambiati profondamente gli atteggiamenti e le aspettative nei confronti dell’Unione europea, l’immagine e la percezione dell’Europa. La rapidità dei cambiamenti economici e le grandi incertezze sulle relative conseguenze, creano un’insicurezza e un disorientamento molto più profondi ed estesi di quelli rilevabili in un recente passato.
Forse, per capirne le ragioni, dovremmo fare un più ampio riferimento alle trasformazioni che ha avuto la società italiana. Le tre zone di coesione sociale individuate da Robert Castel (2003) in suo saggio molto noto, possono essere utili per rappresentare i cambiamenti intervenuti in questi ultimi decenni e i rischi sociali emergenti. Castel individua una "zona di integrazione" caratterizzata da contratti di lavoro a tempo pieno, possibilità di partecipazione alla vita sociale e benefici di welfare adeguati, una "zona di vulnerabilità", la zona della precarietà, del lavoro temporaneo, dei lavori mal retribuiti, di insufficienti risorse di welfare e fragilità delle relazioni primarie. Secondo Castel, la zona di integrazione si sta riducendo, la zona di vulnerabilità e precarietà si sta espandendo e alimenta continuamente una terza zona, la "zona della disaffiliazione<7i>" o dell’esclusione (esclusi dal mercato del lavoro e spesso perdita di buona parte delle tutele sociali).
In Italia, fino alla prima metà degli anni Novanta, la zona dell’integrazione era molto estesa, comprendeva le persone con redditi elevati, le classi medie e buona parte della classe operaia. Se ci riferiamo agli studi più accreditati sulla stratificazione sociale, possiamo stimare che un 70% della popolazione condivideva questa condizione di integrazione. La stabilità lavorativa e le retribuzioni medie consentivano di soddisfare le tradizionali aspettative di queste famiglie: la proprietà della casa, l’accesso agevole alle cure sanitarie, l’istruzione per i componenti più giovani, opportunità di mobilità sociale, la sicurezza di una pensione adeguata, la possibilità di vacanze anche brevi. Le disuguaglianze nei redditi e nelle ricchezze ricominciavano a risalire, ma ancora comunque non determinavano una frammentazione elevata del tessuto sociale. Le prestazioni di welfare erano sostanzialmente stabili o crescenti.
La seconda zona, quella della vulnerabilità si presentava sostanzialmente circoscritta (stimabile nel 20% della popolazione) e riguardava i lavoratori con limitate tutele contrattuali, precarietà, condizioni di lavoro e retribuzioni molto inferiori da quelle condivise dai lavoratori protetti. Anche la zona dell’esclusione riguardava gruppi sociali ben individuabili (il restante 10%), che vivevano condizioni di povertà per lungo tempo, esclusi dal mercato del lavoro, ma con qualche possibilità di rientro in lavori a bassa retribuzione e scarsamente qualificati.
In anni più recenti, e soprattutto dopo la crisi economica e finanziaria, la situazione è cambiata radicalmente, incidendo profondamente nella solidità delle tre sfere di vita (famiglia, lavoro, welfare) nelle quali si costruisce l’integrazione sociale.
La zona dell’integrazione è diventata molto ridotta (può essere stimata nel 30% della popolazione) e comprende le persone con redditi alti e una parte limitata della classe media. In questa zona, l’instabilità della famiglia e la precarietà delle relazioni primarie non sono vissute mediamente come rischio incombente, talvolta sono una scelta, i suoi effetti, nella maggioranza dei casi, rimangono nell’ambito della sfera affettiva.
La zona della esclusione e della povertà (stimabile nel 20% della popolazione) è diventata più ampia, perché accanto alle povertà persistenti si consolida la presenza di famiglie e persone che vivono condizioni di povertà transitorie – di breve durata, occasionale oppure oscillante – con oscillazioni di reddito frequenti fra povertà e precari miglioramenti nel loro reddito, che vivono una fragilità delle condizioni di vita per il diffondersi di instabilità nel mercato del lavoro e nelle relazioni familiari, di isolamento dalle reti informali di aiuto.
In mezzo a queste due zone (quella dell’integrazione e quella della esclusione) si è sviluppata in questi anni una zona estesa caratterizzata da diversi gradi di vulnerabilità che comprende una parte rilevante della classe media e quasi tutta, sostanzialmente, la classe operaia. Persone che vivono situazioni fortemente precarie oppure condizioni particolarmente fluide, dai contorni non ben definiti, in cui tutti i soggetti sono consapevoli che le cose possono mutare, in un senso o in un altro, non sono stabilmente acquisite o stabilmente perse.
L'indagine europea sui redditi e le condizioni di vita delle famiglie (Eu-Silc) rileva che una parte considerevole di questa zona di vulnerabiltà non è in povertà, ma vive ristrettezze finanziare molto elevate: le persone povere oscillano negli anni tra il 15 e il 18%, ma circa il 40% delle famiglie italiane non ha la possibilità di affrontare una spesa imprevista di 800 euro; quasi il 50%, non si può permettere una settimana di vacanza nel corso di un anno. L’OCSE in un recente studio ha rilevato che il disagio economico non coinvolge soltanto i percettori di reddito molto più bassi – il 10% della popolazione più povera - ma una fascia molto più ampia di basso reddito – il 40% della popolazione che si colloca all'estremità inferiore della distribuzione dei redditi.
Le società italiana non ci appare a questo punto caratterizzata soltanto da una elevata povertà e disuguaglianza, polarizzata tra poveri e ricchi, ma anche una società caratterizzata dalla presenza di molte posizioni intermedie fortemente impoverite, con condizioni di vita instabili, che non costituiscono più un tessuto connettivo di relazioni e di valori su cui poggia il vivere sociale e il legame tra differenti gruppi sociali (come storicamente sono state la classe operaia e le classi medie). Ciò che emerge non è un drammatico sconvolgimento della stratificazione sociale o un impoverimento generalizzato, ma un diffondersi progressivo di relazioni instabili in ogni sfera della vita, che crea inquietudine, preoccupazioni per il proprio futuro, insicurezza, sfiducia nelle istituzioni in quanto le loro priorità sono oramai altre.
Fra questi gruppi sociali, in Italia così come in molte nazioni europee, si costruisce un individualismo privo di stabili appartenenze, l’individualismo di chi sta in mezzo e teme una deriva sociale, teme di essere fuori definitamente dal mondo del lavoro, dalla rete di socialità e di sostegno, subire la sottrazione di diritti e di beni; emergono orientamenti valoriali che rischiano di indebolire ulteriormente i valori civici e ogni atteggiamento di fiducia negli altri.
ln passato questo individualismo privo di stabili appartenenze riguardava l’esercito degli esclusi che abitavano le periferie urbane, a cui ben pochi affidavano un percorso di inclusione, perché ritenute persone non affidabili né come lavoratori né come consumatori (il 10% della popolazione). Ora coinvolge un insieme molto esteso di persone, quelle che temono di essere coinvolti in una deriva sociale e non si preoccupano più, nelle relazioni con le istituzioni e il mondo civile, di creare distinzioni simboliche (negli stili di vita, nei consumi, nel linguaggio, nelle preferenze, nell’educazione) con i gruppi sociali che vivono nei margini bassi e nella parti alte del sistema. La cultura delle classi medie – la moderazione, gli stili di vita prudenti, la costruzione nel tempo di una sicurezza economica – è quasi scomparsa e i ceti popolari sono un’altra cosa rispetto alla classe operaia del passato e alla sua cultura e alla qualità collettiva delle relazioni di lavoro che la esprimeva.
L’introduzione di programmi di sostegno economico tendenzialmente universalistici (Rei, Reis) non migliora le condizioni di vita di questi strati sociali in quanto questi programmi sono rivolti ai gruppi sociali con maggiore deprivazione economica, ad una quota delle povertà assolute. Invece, la riduzione delle prestazioni di welfare, incide e ha inciso massicciamente sulle loro condizioni di vita delle classi intermedie, accrescendo il loro senso di precarietà e le loro ristrettezze economiche. Questa parte della popolazione è costretta ad utilizzare crescentemente prestazioni private nell’ambito della sanità, dell’istruzione destinando alle cure sanitarie quote crescenti del reddito: in molte regioni una applicazione dell’ISEE rigorosa ha escluso una parte significativa di queste famiglie dall’accesso agevolato a molti servizi comunali (asili nido, sostegno domiciliare, servizi residenziali).
I welfare in Europa stanno andando in questa direzione riducendo le prestazioni di welfare per le classi intermedie attenuando sensibilmente le differenze tra i vari sistemi nazionali. Ciò che sta emergendo, sostanzialmente, è una sorta di modello unico di welfare, una configurazione che possiamo definire “ibrida” o “mista” che combina, in termini ritenuti finanziariamente più sostenibili, limitate risorse pubbliche e crescenti risorse private, modalità d’intervento storicamente privilegiate dai sistemi di welfare liberale con modalità dei sistemi di welfare socialdemocratico. Il modello di welfare che si sta consolidando in Europa è diventato un modello di riferimento anche per l’Italia, veicola un modello di modernità che è molto lontano dalle esigenze della maggioranza delle famiglie italiane.
Cagliari 25 giugno 2018