Sinistra Autonomia FederalismoRipartiamo dalle idee e dai territori
Diritto alla piena e buona occupazione - Michele Carrus
Io sono stato abituato a considerare sempre il binomio di parole d’ordine “lavoro e sviluppo”, e su di esso anche oggi voglio impostare il mio intervento.
Ebbene, come si fa, innanzitutto, a creare lavoro dove manca? Come si crea in particolare al Sud e nelle aree in ritardo di sviluppo? Come si fa in Sardegna, in quest’isola che si spopola sem¬pre più, dalla quale scappano i nostri giovani per cercare altrove un futuro che qui a loro è nega¬to, e da dove anche gli adulti, quando perdono il lavoro, vanno via per disperazione, per spende¬re dove si può una professionalità matura qui priva di sbocchi? È, infatti, esattamente questo che sta accadendo sotto i nostri occhi, con numeri ormai impressionanti che ci consegnano un saldo demografico complessivo in costante peggioramento, ad un ritmo talmente accelerato che rischia di travolgere le speranze di rinascita, soprattutto per le zone interne.
Intanto possiamo osservare come la storia recente di anni di deregulation del mercato e delle politiche del lavoro, all’insegna della flessibilità che si propagandava come necessaria a “svec¬chiare” il nostro ingessato sistema e a accompagnare la “modernità” della globalizzazione eco¬nomica, ha ormai rivelato che questa è una ricetta fallimentare.
E’, inoltre, una ricetta che produce la disfatta politica di una sinistra che si è acconciata al pensiero debole della economia sociale di mercato, cioè a quella concezione della politica non come scienza e pratica di cambiamento del mondo e delle sue ingiustizie, ma come funzione strumentale all’accompagnamento dei cambiamenti ineluttabili di struttura attraverso misure che ne attenuino gli effetti negativi sulle classi popolari. Queste, con pazienza, secondo il pen-siero di Chicago divenuto dominante, si ritroverebbero, domani, beneficiarie dei miglioramenti alla qualità complessiva della vita indotti da quella competitività globale, sviluppatasi al meglio grazie allo “Stato minimo”, che spinge il capitale ad accrescersi fino a saturare la capienza delle tasche degli imprenditori multinazionali, così come fa un liquido che, per traboccamento del vaso, finisce inevitabilmente per lambire i piedi di chi gli sta intorno.
Niente di più falso, come questa lunga crisi decennale ha messo a nudo: abbiamo meno occu-pati di prima e più lavoro precario, un lavoro debole e povero, che si svolge in catene di produ¬zione del valore sempre più frammentate e meno riconoscibili come ciclo unitario o filiera; dove diventa più difficile, con interlocutori sfuggenti o lontani rispetto alla rappresentanza del lavo¬ro, negoziare le condizioni d’ingaggio e d’impiego delle persone e di redistribuzione della ric¬chezza prodotta.
Ma abbiamo anche una generalizzata, e miope, riduzione della capacità di spinta del mercato interno, sacrificato nel nostro Paese a una competizione giocata al ribasso, sul contenimento dei fattori di costo piuttosto che sullo sviluppo della produttività attraverso l’innovazione, e votata ad esportazioni sorrette dalla svalutazione del lavoro, non potendosi più svalutare la moneta dopo l’adozione dell’Euro. Per questo si è rallentata la dinamica salariale e ridotta la sfera dei diritti delle persone che lavorano, generando però quella condizione d’impoverimento dei sala¬riati che si riflette in minori consumi di beni necessari e di beni durevoli, su cui s’incardina il nostro apparato produttivo. Anche per questo l’Italia fatica più di altri Paesi comparabili per livello di sviluppo a superare la crisi e sconta tassi di crescita sensibilmente inferiori, mentre perde progressivamente alcuni asset industriali fondamentali, acquisiti da grandi gruppi impren¬ditoriali o fondi d’investimento, privati o sovrani, d’altre nazioni.
La Sardegna sconta un ritardo di sviluppo “storicizzato” dalla sostanziale assenza di processi di accumulazione primitiva, dovuta al parassitismo di una proprietà fondiaria nobiliare di stampo feudale che è rimasta tale fino ad epoca relativamente recente, gravando sulle spalle di pastori e contadini asserviti e in perenne conflitto tra loro; e, insieme, dovuta a una borghesia cittadina che ha preferito rinchiudersi in urbe nelle professioni liberali, negli incarichi amministrativi o nel commercio di prossimità, con le manifatture artigiane ridotte all’attività di mera sussistenza quando non a un mercato domestico o poco più.
In queste condizioni, nella lontana “isola dei sardi”, come la chiamava Giaime Pintor, separata dal continente e priva di efficaci collegamenti, era difficile che potesse crescere un’autoctona classe imprenditoriale moderna e votata agli investimenti produttivi: il nanismo imprenditoriale e manageriale è ancora oggi una debolezza caratteristica del nostro tessuto economico. La stes¬sa industrializzazione è arrivata in età repubblicana per processi esogeni, determinando, sì, mo¬dernizzazione, ma insufficiente e inadatta a costruire filiere diffuse e, soprattutto, causando quella catastrofe antropologica descritta dal compianto prof. Brigaglia, che in parte ha cambiato volto al nostro mondo agro-pastorale, ma lasciandone incancrenire certi aspetti deteriori.
La lenta agonia di un modello di sviluppo ci spinge oggi a dire che occorre puntare con decisio¬ne sui settori innovativi, a salire sulla locomotiva del treno in corsa piuttosto che sul vagone di coda, perché ripercorrere ora le tappe canoniche dell’industrializzazione moderna significhe¬rebbe mettersi a inseguire obiettivi che sempre si allontanano: parlo della green e della blue economy, del riutilizzo dei materiali e dell’economia circolare; del settore aerospaziale, della cantieristica, delle biotecnologie e della meccanica fine; delle nuove energie e delle tecnologie dell’informatica e della comunicazione, Fer e Ict. Si tratta di settori ad alto valore aggiunto, ben capaci di integrarsi in modo ottimale nel nostro contesto soprattutto perché soffrono meno del-l’isolamento, virtualmente o materialmente connessi a cluster e reti anche di livello internazio¬nale.
Si tratta di assumere consapevolezza che la via competitiva più efficace per sistemi economici avanzati come il nostro, oggi, è quella del sapere, del suo maggior contenuto che trasferiamo nelle produzioni e nei modi con cui le facciamo, perché perseguire una via più bassa significa essere messi in difficoltà dai sistemi meno evoluti sul piano della coesione sociale, della legisla¬zione ambientale e del lavoro: sappiamo purtroppo che in tante realtà del mondo si trovano an¬cora bambini incatenati ai telai che confezionano i nostri capi d’abbigliamento e sportivi griffati, un’innocenza sacrificata al più brutale sfruttamento capitalistico che mette così fuori gioco an¬che le nostre industrie tessili.
D’altronde è questa anche la strada per riqualificare le nostre produzioni più tradizionali, nei settori estrattivi, sabbia, pietre, sughero, nella metallurgia non ferrosa, perché è l’innovazione tecnologica che può renderne sostenibili i processi. Si tratta di manifatture di valore strategico per l’intero Paese, dato che non si trovano quasi da nessun’altra parte che qui e forniscono in¬termedi che sono materia prima essenziale di altri processi della potenza industriale italiana, la seconda in Europa e sesta al mondo, benché sia tanto sottovalutata dalle politiche pubbliche,
valutandole al netto delle regalie senza contropartita alle imprese quale metodo consueto di governo che ha informato anche le scelte del centrosinistra negli ultimi anni.
È così che si può venire a concretizzare, dentro un quadro progettuale del nostro futuro di ‘re¬gione europea’, un approccio fattoriale alle politiche di sviluppo che sceglie di investire innanzi¬tutto nella scuola e nell’istruzione di tutti gli ordini e gradi, non solo come mezzo di elevamento del grado di civiltà complessiva, ma anche come fattore di crescita economica e di coesione so¬ciale, poiché l’esperienza ci dimostra che sono i Paesi che più hanno investito nella formazione dei loro giovani, nel talento, e nella riqualificazione e aggiornamento professionale dei lavorato¬ri, quelli che hanno saputo affrontare meglio la crisi e cambiamenti necessari a superarla.
Perciò servono infrastrutture moderne nei sistemi di connessione e di trasporto, nelle reti, dal riciclo dell’acqua ai sottoservizi, dall’energia alla banda larga.
Ma ci servono anche politiche settoriali specifiche, dedicate, sulla base di un riassetto e gover¬no del territorio che tenga conto di cosa si può compatibilmente e sostenibilmente insediare e dove si possa fare oppure no, con quali motivazioni e quali servizi reali di supporto, perché non tutto si può fare dappertutto: questa è la ragione per cui noi riteniamo preliminare alla nuova normazione delle trasformazioni urbanistiche del territorio l’estensione del Piano Paesaggistico all’intero ambito regionale e non lasciarlo limitato soltanto alla fascia costiera, perché esistono vocazioni produttive, potenzialità e valori ambientali differenti da luogo a luogo. E così trovano senso anche le diverse forme di promozione ed attrazione degli investimenti, che si possono mettere in campo in modo selettivo, cioè capace di favorire un’attività desiderabile, e perciò programmata, e dissuaderne un’altra non preferibile, magari perché improntata soltanto alla speculazione a breve termine.
Per questo va considerato fattore fondamentale di successo una Pubblica Amministrazione effi¬ciente e moderna, che snellisca il peso della burocrazia e semplifichi il rapporto tra autorità e cittadini ed imprese, cosa che si realizza anzitutto attuando processi di reale federalismo inter¬no, esaltando i principi di appropriatezza e di sussidiarietà; una P.A., cioè, fattore attrattivo e propulsivo d’investimenti più potente della stessa fiscalità di vantaggio, in nome della quale oggi si fa appello alle ZES, le Zone Economiche Speciali, per invocare nuove franchigie fiscali, ma si tende poi a ridurle ad un obiettivo generico buono per tutti, così snaturandole e depotenziando¬ne i possibili “effetti speciali”.
Ma su tutto serve una politica del lavoro che restituisca ad esso il suo ruolo di fondatore della civiltà e della democrazia, di costruttore di libertà e di emancipazione per gli individui e per i gruppi sociali. Non si può davvero considerarlo, invece, come un qualsiasi fattore produttivo, trattarlo come una merce qualsiasi: dietro un lavoro c’è sempre una persona che lo svolge, per¬sone che lavorano, cittadini portatori di diritti da rendere chiari ed esigibili, per tutti, quale che sia la forma con cui ciascuno mette a disposizione la propria intelligenza e capacità professiona¬le. Per restituire al lavoro la sua centralità, offesa da leggi e provvedimenti “smemorati” e che sembra perduta nel pensiero e nell’agire politico anche della sinistra attuale, noi della Cgil ab¬biamo proposto la Carta dei diritti universali, un progetto di legge popolare sorretto dalle firme di milioni di persone.
Va da sé che a questa visione occorrono anzitutto risorse certe e aggiuntive rispetto a quelle ordinarie, iniziando intanto a rendere tali i Fondi SIE, i Fondi strutturali e d’investimento euro¬pei, che spesso hanno solo surrogato i mancati trasferimenti statali.
Occorrono più risorse al Mezzogiorno, assegnate duraturamente in modo più che proporzionale alla sua consistenza demografica e territoriale; un grande Piano di investimenti al Sud – quello che manca totalmente nella visione programmatica di questo Governo penta-leghista -che la CGIL ha pensato come declinazione del suo Piano per il Lavoro, che punta a rafforzare il ruolo pubblico in economia non solo attraverso lo sblocco delle assunzioni andando oltre il solo turn over, per offrire ai giovani qualificati qualche prospettiva diversa dalla via di fuga all’estero, e attraverso l’incremento delle risorse per i servizi pubblici locali -non solo di welfare - e per il buon funzionamento dell’amministrazione; ma anche attraverso la costituzione di una nuova forma di governance delle politiche industriali, una nuova Agenzia pubblica di sviluppo, che fac¬cia co-progettazione, promozione e implementazione degli investimenti privati.
Un Piano che punta sulla sistemazione idraulica e ambientale del territorio e dell’urbanistica realizzata, poiché i disastri meteorologici e sismici recenti ce la impongono non solo come prio¬rità per ragioni di sicurezza, ma anche come grande opportunità di rilancio della nuova edilizia, quella dei nuovi materiali, dell’efficienza energetica e dell’ammodernamento dei sistemi a rete.
Un Piano che poi punta alla valorizzazione dei beni ambientali e culturali, un giacimento unico al mondo per dimensioni e caratteristiche, in cui anche noi abbiamo la nostra unicità regionale da tutelare e rendere motore di sviluppo: pensiamo, ad esempio, all’agroalimentare, alle tipici¬tà artigianali e al turismo, dove abbiamo da destagionalizzare un’offerta ancora troppo legata al segmento marino-balneare, attraverso politiche diverse da quelle orientate ancora a sempre sul mattone (eppure era ancora questo che si poneva alla base del disegno di legge urbanistica poi ritirato dalla Giunta!).
È la logica che noi abbiamo posto alla base della rivendicazione che in Sardegna ci ha portato a conquistare il Programma Lavoras, che coinvolge le Autonomie Locali in progetti d’investimento utili a migliorare la loro efficienza amministrativa e il contesto locale per insediamenti produtti¬vi, non a casaccio, come talvolta è accaduto in passato, ma secondo un catalogo di interventi predisposto da una regia unitaria del programma. In questo senso il Programma, pur partito len¬tamente, sta mostrando una sua efficacia che lo rende meritevole di essere difeso e rafforzato anche nei prossimi anni; una misura non strutturale, ma funzionale al sostegno ai disoccupati privi di altri sussidi, a creare nuove occasioni di lavoro e a favorire ulteriori politiche di sviluppo.
Ma dire che il settore primario è fondamentale significa non solo assumere che la nostra dipen¬denza eccessiva dall’esterno per il nostro fabbisogno alimentare drena via dalla Sardegna ogni anno tante risorse che potrebbero essere reinvestite qui, ma anche altre due riflessioni, e ad un tempo obiettivi: la prima, che anche il no-food è funzionale al migliore sviluppo del settore, perché consente di integrare il reddito dei conduttori dei poderi agricoli mentre alimentano at¬tività industriali innovative che realizzano anche scelte di politica ambientale (pensiamo alla chimica verde, alle bioplastiche, al biofuel, alle bioenergie); la seconda, che serve il traino in¬dustriale delle attività manifatturiere di trasformazione dei prodotti dell’agricoltura, dell’alle¬vamento e della pesca, sennò resti al palo (il settore di per sé richiede tempi lunghi per cresce¬re). E quando si ha tanta terra e poca gente che la calpesti, come da noi, questo si può fare puntando alla quantità, a standardizzare una qualità “riconoscibile”, non puntando soltanto alle eccellenze qualitative che aspirano a conquistare nicchie di mercato, come troppo spesso si sen¬te predicare.
Per questo serve la riforma fondiaria, le reti d’imprese integrate e multidimensionali, una mi¬gliore governance dell’acqua multisettoriale, una migliore strategia commerciale e, ancora una volta, l’innovazione, dentro la stessa cornice di politiche fattoriali che riguardano anche gli altri settori, poiché senza metano non fai surgelazione o linee del fresco o inscatolamento o non lo fai in modo competitivo; e senza formazione e competenze digitali, oggi, rischi di non fare più né il pastore né il pescatore né il contadino, non fai agricoltura di precisione, o pesca d’altura o gestione del gregge.
Ecco, l’avvento della 4^ Rivoluzione Industriale oggi aleggia su tutto: siamo entrati a passi ve¬loci nell’era della gig economy, della manutenzione predittiva, della stampa tridimensionale, della realtà aumentata, della robotica e dell’intelligenza artificiale che sviluppa un internet del¬le cose, sempre più sofisticato; cose che stanno cambiando le nostre vite e la stessa nostra per¬cezione della realtà sociale e materiale in cui ci troviamo, che ci trasformano in produttori in¬consapevoli di una ricchezza alla quale non partecipiamo, mentre pensiamo di essere solamente consumatori di prodotti e servizi che, in realtà, prima contribuiamo a creare e poi acquistiamo sul web…
In tempi brevi sembra che l’affermazione dell’era digitale si appresti a distruggere più lavoro di quanto ne crei, e questo apre forti dilemmi: innanzitutto il problema di chi controlla, verifica e assicura un corretto utilizzo dei dati e delle informazioni che vengono, sì, usati per alimentare il mercato dei beni e servizi, ma anche per condizionare le scelte delle persone e dei gruppi so¬ciali, per esempio per orientarli politicamente. E poi il problema del forte divario, crescente, tra insiders, quanti possiedono le utili competenze tecnologiche, e outsiders, risospinti sempre più in basso nell’organizzazione del lavoro, sempre più polarizzato tra i creatori di algoritmi, i tecnici del marketing e i “lavoretti” della piattaforma, i rider di Foodora o la semischiavitù dei magazzinieri di Amazon.
Il 60% dei lavoratori oggi è considerabile quasi analfabeta tecnologico, in un mondo che tra poco più di cinque anni avrà perso, in quanto obsoleti, il 20% delle mansioni e dei lavori che at¬tualmente si fanno. Siamo proiettati in una realtà occupazionale in cui i lavoratori saranno sempre più individualizzati, paradossalmente tanto più soli quanto più interconnessi in rete, attraverso piattaforme e canali di comunicazione, in cui si finisce per perdere persino il senso del lavoro alle dipendenze, nella presunzione che essere terminali e risorgenti di flussi di dati che implementiamo con il nostro apporto ci renda in qualche misura più autonomi professional¬mente. Si tratta dunque di costruire per questi lavoratori appropriati modelli di relazioni indu¬striali, di contrattazione e di previdenza, di acquisire, cioè, insieme alla consapevolezza dei cambiamenti e dei mutamenti di condizione, nuove forme di rappresentanza e di esercizio nego¬ziale per loro.
E’ qui che diventano nuovamente centrali, da un lato, la formazione, il diritto all’aggiornamen¬to continuo, perché è questo che ti tiene attivo e utile per te e per gli altri, che fa inclusione, oggi; dall’altro, il ruolo dei soggetti collettivi della rappresentanza del lavoro, che insieme pos¬sono contribuire a piegare il corso degli eventi in senso democratico anziché verso l’avvento del Grande Fratello.
Noi ci siamo, la CGIL c’è e ci sarà; essa è per tutti noi, insieme, una certezza e una speranza.
*Segretario generale della Cgil Sarda
Cagliari 26 novembre 2018