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La cura come antidoto al razzismo di Stato - Maria La Porta
Fra i diritti fondamentali in questo momento sotto attacco nel nostro paese ma anche in altri stati europei e non, ci sono certamente quelli delle persone migranti e quelli delle donne.
Da volontaria dell’accoglienza e da femminista mi muoverò quindi lungo le direttrici di queste mie due esperienze perché ritengo che oggi più che mai sia valida l’affermazione “il personale è politico”.
Parto quindi dalla mia attività di volontaria nell’assistenza agli sbarchi che ho svolto a Cagliari nel 2017 per raccontare come per me il lavoro a sostegno di chi è arrivato qui sia stata una preziosa occasione di “cura” nel senso femminista del termine.
Prendersi cura è un atteggiamento strutturalmente relazionale, che porta l’io fuori da sé, in contrapposizione all’individualismo che concepisce l’uomo come individuo asociale, isolato, autosufficiente. La cura presuppone il riconoscimento dell’esistenza di un altro; la percezione che l’altro esiste accanto; la consapevolezza che l’io è chiamato ad entrare in rapporto “con” l’altro.
Ma la cura presuppone e implica anche una relazione asimmetrica: prendersi cura significa riconoscere che l’altro esiste, ma significa anche riconoscere che il rapporto che è possibile stabilire con l’altro non sempre è paritetico o simmetrico. Se l’altro ha bisogno di cura, tra chi cura e chi è curato si evidenzia inevitabilmente una asimmetria; chi cura è in una posizione di forza; chi ha bisogno della cura è in una condizione di debolezza, vulnerabilità, difficoltà.
Ma in cosa si traduce concretamente la cura durante l’attività di assistenza a uno sbarco?
Nella capacità di comunicare oltre i gesti e le parole la propria volontà profonda di entrare in relazione con l’altro, di sostenerlo e accompagnarlo in un momento di estrema fragilità.
Chiunque di voi abbia visto le immagini di uno sbarco sa che le operatrici e gli operatori indossano una divisa, dei guanti e una mascherina che copre loro il volto quasi per intero. Nel caso in cui salgano sulla nave per supportare le operazioni di identificazione e discesa, indossano anche una tuta bianca con cappuccio come ulteriore dispositivo di protezione individuale. In una condizione del genere, la cura si traduce nella capacità di sorridere con gli occhi a chi ci viene incontro, prendergli con delicatezza il braccio per sostenerlo se necessario, rivolgergli le prime parole di pace in terra italiana, “salam-aleikum”, e vedere i tratti del viso distendersi finalmente in un sorriso.
Questo e molto altro sono stati per me gli sbarchi fino all’ultimo, il 28 giugno 2017, vale a dire quando per effetto del decreto Minniti prima e di quello Salvini poi gli sbarchi programmati a Cagliari sono di fatto cessati. Da allora non è trascorso un solo giorno senza che io pensassi al fatto che a chi non è stato più permesso di arrivare, è rimasta solo l’alternativa fra morire in mare oppure nei lager libici.
Nell’escalation della strategia del Ministro Salvini, un passaggio per me cruciale è stata la vicenda della nave Acquarius di Medici Senza Frontiere. E’ stata infatti la prima occasione in cui il nuovo governo si è rifiutato di aprire i porti italiani a una nave carica di migranti soccorsi al largo della Libia.
L’Aquarius è rimasta per tre giorni in alto mare con 630 migranti a bordo, tra cui 123 minori non accompagnati e 7 donne incinte, in attesa che venisse trovata una soluzione. Per via delle condizioni meteo avverse, la nave circumnavigò la Sardegna prima che la situazione si sbloccasse l’11 giugno, quando il governo spagnolo rese disponibile il porto di Valencia, distante più di 1.500 chilometri da dove si trovava l’Aquarius.
In questa vicenda ci sono molti elementi chiave della “gestione Salvini” ma forse quello centrale resta l’inesistenza di un provvedimento formale di chiusura dei porti: nessun atto ufficiale del Ministero dei Trasporti ma un semplice tweet e i media a fare da cassa di risonanza ad una decisione indegna senza che nessuno, almeno inizialmente, si fosse interrogato sulla liceità di un’azione di questo tipo.
Nei giorni in cui Acquarius ha circumnavigato la Sardegna per ripararsi dalle condizioni meteo avverse, in attesa di arrivare a Valencia, alcuni di noi hanno chiesto che fosse aperto il porto di Cagliari con un atto di disobbedienza civile (tema ci accompagna fino alla vicenda di Riace) per permettere alla Protezione civile sarda di fare quello che ha sempre fatto egregiamente in questi anni: accogliere. Per darvi un’idea: a Valencia sono stati impegnati nelle operazioni sbarco dei 630 dell’Acquarius circa 2500 volontari, quasi 4 per migrante. A Cagliari è stata fatta assistenza a sbarchi di oltre 1200 persone con 150 volontari che si sono alternati in turni diurni e notturni. Spiace davvero che anziché rivendicare con orgoglio questo straordinario lavoro, si sia rimasti alla finestra a guardare Acquarius passare lungo le nostre coste col suo carico di sofferenza, senza poter fare nulla.
Il secondo passaggio sul quale vorrei soffermarmi è l’attacco all’autodeterminazione delle donne da parte di questo governo che si fa ogni giorno più feroce, a partire dalla mozione leghista che dichiara Verona “città a favore della vita” e finanzia associazioni antiabortiste.
Dopo Verona, la stessa mozione è stata presentata a Ferrara, Milano, Roma, Sestri Levante e di fronte a questa escalation l’assemblea nazionale di Non una di Meno ha dichiarato lo stato di agitazione permanente. Si pensi inoltre al disegno di legge Pillon sulla riforma del diritto di famiglia, alle esternazioni dello stesso senatore leghista in tema di aborto o quelle del ministro per la Famiglia Lorenzo Fontana – il quale, peraltro fa parte del Comitato No194 che chiede l’abrogazione della legge sulle interruzioni di gravidanza.
Fino ad arrivare alla vergognosa strumentalizzazione dei corpi delle donne vittime di violenza da parte del Ministro Salvini allo scopo di accrescere il proprio consenso. Naturalmente l’indignazione del Ministro è rigidamente selettiva e scatta soltanto quando a delinquere è un migrante. Questa è l’unica ragione che lo ha portato a Macerata prima, per il femminicidio di Pamela Mastropietro, e nel quartiere San Lorenzo di Roma ieri, quando ha cercato di raggiungere lo stabile nel quale la giovane Desirée Mariottini è stata stuprata e uccisa ma gli è stato impedito da donne e uomini che non hanno esitato a ricacciarlo indietro per quello che è: uno sciacallo.
Sono dati recenti dello stesso Ministero dell’Interno a chiarire che più dell’80% degli stupri sulle donne italiane è commesso da un italiano bianco e che gli stupratori stranieri sono il 15,1%.
E proprio in questo gigantesco capovolgimento di senso si colloca una sempre più evidente intersezionalità fra razzismo, sessismo e classismo, che agisce oggi come una potentissima interconnessione tra le diverse forme di dominio.
L’uso mediatico e politico dei casi simili dimostra come il razzismo si riproduce anche attraverso il corpo delle donne stuprate, usato nei discorsi pubblici e istituzionali per affermare l’inferiorità culturale dei gruppi immigrati, la pericolosità degli uomini immigrati e, parallelamente, per offuscare l’estensione del fenomeno della violenza maschile presente nella cultura italiana.
Un episodio di violenza sessista come quelli citati, si può trasformare rapidamente in un terreno per produrre o consolidare percezioni razziste e sessiste, nonché per promulgare leggi che non hanno niente a che vedere con il problema della violenza maschile contro le donne.
Si pensi al “pacchetto sicurezza” emanato dal Ministro Amato in seguito allo stupro e al femminicidio di Giovanna Reggiani a Roma nel novembre 2007.
In questo contesto, i casi di violenza sessuale interetnica sono stati strumentalizzati come «stupri utili» ai fini della costruzione del razzismo di Stato. I gruppi femministi si sono opposti alla violenza contro le donne ma anche alle strumentalizzazioni razziste. Sostenere – enfatizzando la dominazione di genere in chiave antirazzista – che lo stupro non è etnico, non ha confini, non ha passaporto e a commetterlo è sempre un uomo, è un gesto politico importante, di questi tempi. Ma a patto che l’analisi non si fermi qui. Simili prese di posizione, infatti, non bastano a modificare il senso comune modellato da anni di retoriche razziste e segregazioniste, a destra come a sinistra: l’interpretazione secondo cui una violenza sessuale commessa da uno straniero è più grave di quella di un italiano è già in qualche modo passata nei media è già in qualche modo egemonica.
Come si può reagire a tutto questo?
All’indomani del femminicidio di Giovanna Reggiani nel novembre 2007, un gruppo di donne lanciò un appello per una grande manifestazione di piazza contro la violenza maschile sulle donne. La risposta fu straordinaria: 150.000 donne arrivarono a Roma da tutta Italia per affermare con forza che la violenza non ha confini e che, nella maggioranza dei casi, l’assassino ha le chiavi di casa. Fu la più grande manifestazione femminista dai tempi di “Riprendiamoci la notte” nel 1976.
Ad aprire quel corteo furono, fra le altre, le donne del campo Rom in cui viveva l’assassino di Giovanna: le stesse che con la loro testimonianza permisero agli inquirenti di ricostruire cosa avvenne in quella terribile notte di fine ottobre nei pressi della stazione di Tor di Quinto.
Unire le lotte di donne, migranti, lavoratori è la risposta perché, come scriveva Carla Lonzi “Nessun essere umano e nessun gruppo deve definirsi o essere definito sulla base di un altro essere umano e di un altro gruppo.”
Cagliari, 25 ottobre 2018