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Aree interne: terre civiche e spopolamento
Il contenimento dello spopolamento delle aree interne: il possibile contributo di natura economico-sociale delle terre civiche
di Francesco Nuvoli
La tematica delle aree interne, con particolare riferimento ai problemi di natura demografica, è presente oggi, e non solo da oggi, nel dibattito pubblico a tutti i livelli e nell’interesse di studiosi. È certamente una tematica molto importante per la Sardegna in relazione alla dinamica economico-sociale di ampie aree del territorio regionale. La mia esposizione considera una caratteristica propria di gran parte delle aree interne dell’isola, la presenza cioè in esse di terre civiche, i cui aspetti vengono esaminati dall’angolo visuale di un loro possibile contributo per il contenimento del fenomeno del decadimento demografico.
In Sardegna, la dotazione di terre civiche risale ad epoche remote. L’uso collettivo, noto come ademprivio, si consolida nel periodo della dominazione aragonese quale “complesso di diritti esercitati dalle popolazioni sul terreno appartenente al dominio feudale” (G. Medici, “Aspetti recenti e remoti della proprietà fondiaria in Sardegna”, in L’Italia agricola, n. 11, 1932, p. 12). Il diritto d’uso sulle terre comuni è esercitato nella regione dai partecipanti ad una data comunità (comune o frazione di esso). Non ha, invece, mai annoverato forme di “proprietà collettiva” la cui titolarità appartiene esclusivamente ai discendenti degli antichi originari. Le forme più comuni di esercizio del diritto di uso civico sono rappresentate dal diritto di pascolare, fare legna, seminare, raccogliere ghiande, ecc. Le ragioni dell’affermazione dell’uso civico nel lontano passato sono da attribuire alla necessità di soddisfare le esigenze di base della popolazione residente in un dato centro abitato.
Il miglioramento delle condizioni economiche, nel frattempo intervenute, non deve però far ritenere obsoleto tale istituto. Nel corso del tempo, comunque, la posizione sulla sussistenza delle terre civiche, sulla loro conservazione non è stata univoca. Così, nel periodo del liberismo economico del 18° secolo, sono state avanzate proposte per una loro abolizione non ritenendole in grado di assicurare lo sviluppo del settore agricolo. Tra gli studiosi, fautori di questa proposta, si può citare Francesco Gemelli, autore del libro, pubblicato nel 1776, sul Rifiorimento della Sardegna proposto nel miglioramento di sua agricoltura il quale è favorevole al passaggio alla proprietà individuale delle terre comuni. Questa proposta è stata accolta, successivamente, dal governo sabaudo di allora che ha varato nel 1820 il noto Editto delle chiudende che ammetteva le recinzioni di queste terre per incentivare le coltivazioni agricole.
Altra norma importante riguardante l’assetto fondiario è la Carta reale del 1839 con la quale si abolivano i feudi. I terreni ex feudali, passati ai comuni, hanno comunque conservato i tradizionali diritti ademprivili che sono stati aboliti con la L. n. 2252 del 1865. Ma nonostante queste norme abolitive, gli usi civici sono rimasti.
Nel secolo ventesimo, il legislatore ha varato la L. n. 1766 nel 1927 e nel 1928 il Reg. di attuazione n. 332, sul “Riordinamento degli usi civici nel Regno”. Questa legge ha previsto l’accertamento dell’esistenza, natura e estensione degli usi civici ed ha sancito la loro abolizione sui terreni di proprietà privata. I terreni sui quali è stato accertato l’uso civico vengono suddivisi in due categorie, a e b. I primi, che comprendono quelli “convenientemente utilizzabili come bosco o come pascolo permanente”, continuano ad essere gestiti dai comuni con la conservazione dei diritti da parte delle popolazioni. I secondi (categoria b), cioè i terreni “convenientemente utilizzabili per la coltura agraria” sono invece destinati ad essere ripartiti tra le famiglie dei coltivatori diretti del comune o della frazione.
La legge in questione è stata applicata soltanto in parte. Basti pensare che, in Sardegna, la fase di accertamento non è stata ancora ultimata.
È comunque un fenomeno piuttosto presente, rappresentato in Sardegna, e si stima che interessi circa 300-350 mila ettari.
La situazione attuale di questo vasto patrimonio riflette per lo più la condizione di sempre: scarsità di investimenti fondiari, pratica del pascolo brado. Esso è rimasto sostanzialmente estraneo ai fenomeni evolutivi che hanno caratterizzato il comparto ovi-caprino con la riforma agro-pastorale. Si pensi che la L.R. n. 39/73, sebbene all’art. 4 avesse previsto l’estinzione degli usi civici dei terreni comunali interessati da opere di trasformazione fondiaria di pubblica utilità, ha riguardato soltanto 10 zone di valorizzazione agro-pastorale per una superficie di appena 11 mila ettari. La Regione sarda si è dotata di una legge importante, la n. 12 del 1994: “Norme in materia di usi civici” che, oltre a prevedere atti di disposizione, permute, mutamento di destinazione, ecc., prevede la possibilità di potenziare l’utilizzo delle risorse attraverso l’esecuzione di Piani di valorizzazione. Rappresenta, questa, un’opportunità ma di fatto sono tuttora pochi i comuni che hanno predisposto il Piano.
Ora, questa realtà regionale, rappresentata dal patrimonio di terre civiche, si è conservata nel tempo grazie ai vincoli imposti di imprescrittibilità, inalienabilità e inusucapibilità. La loro destinazione agro-silvo-pastorale ha consentito la permanenza del carattere di ruralità e la salvaguardia ambientale. Il carattere ambientale di questi luoghi è testimoniato dallo stesso legislatore che ne ha riconosciuto la valenza già con la Legge Galasso, n. 431 del 1985 e poi con il Decreto Urbani, n. 42 del 2004.
Si tratta di terre, beni civici, che in Sardegna sono per lo più destinate, come forma di utilizzo, all’allevamento. E ciò è comprensibile tenuto conto che la maggior parte di esse sono appartenenti alla categoria “a” e utilizzate come pascolo.
In queste terre, vive una comunità più spesso coesa, e la comunità c’è perché ci sono questi beni a fruizione collettiva.
Il sociologo Francesco Alberoni, negli Atti di un convegno tenuto a Cagliari nel lontano 1959 su “I fattori culturali dello sviluppo”, considera la proprietà comune della terra e gli usi civici un esempio di cooperazione. Ed infatti, come si diceva, il tessuto sociale registra più spesso forme di solidarietà, di condivisione.
Ignazio Pirastu, nella relazione della commissione d’inchiesta sui fenomeni di criminalità in Sardegna presieduta dal senatore Giuseppe Medici, ha sostenuto che non si può modificare la forma comunitaria senza aver prima pensato a nuove forme di conduzione e di produzione. Una scelta diversa può comportare, con la rottura dell’equilibrio: pastorizia, pascolo brado, uso comunitario, una presa di posizione da parte dei pastori. E ciò è vero e ne sono testimonianza le forme di ribellione conseguenti alle azioni tese a modificare il regime fondiario preesistente. Il passaggio quindi da un bene comunitario a quello individuale può comportare la cessazione di quelle forme di solidarietà che ne caratterizzano la fruizione. L’esistenza, in questi territori, di una certa dotazione di coesione sociale non è una condizione di poco momento. Ciò perché la misurazione del benessere ha superato ormai la concezione puramente economica e include, con la stessa valenza, la componente sociale e quella ambientale.
Con riferimento alla situazione di natura economica, emerge con frequenza un sovrasfruttamento delle risorse naturali disponibili. Ciò, se da un lato, può esprimere positivamente la presenza umana su questi territori, allo stesso tempo la crescente tendenza all’utilizzo delle risorse impone una disciplina dell’uso. Esiste certo un Regolamento comunale, ma non sempre è applicato nella sua interezza. Inoltre, in tema di valorizzazione è opportuno valutare la potenzialità delle risorse e attuare quegli investimenti necessari utili per consentire una crescita reddituale. In relazione a ciò, dobbiamo tener conto che gli imprenditori allevatori si differenziano da quelli che gestiscono aziende private in quanto non effettuano scelte, e non possono farle in merito al capitale fondiario, cioè alla terra. Ma la scelta sul futuro, sugli investimenti da effettuare, deve vedere partecipi, con un contributo fattivo, gli stessi fruitori, interessati all’utilizzo del bene comune. In questo modo, si può dare vita a imprese ad indirizzo familiare in un tessuto umano coeso. Imprese quindi più tecniche, più moderne, dove la tecnica deve essere al servizio dell’economia e delle relazioni umane.
In questo modo c’è la viva speranza che questi territori, continuando nel tempo la loro utilizzazione economico-produttiva, possono consentire una permanenza nei luoghi di origine dei fruitori stessi.
Con riferimento all’utilizzazione delle terre civiche per l’attività pastorale, si può rilevare, come prima considerato, che la valorizzazione di questi territori, incrementando, dove possibile in quanto economicamente conveniente, il carico di bestiame mantenibile per ettaro, può costituire una leva importante per la razionalizzazione del processo produttivo e la riduzione dei costi di produzione. È importante però che su questo percorso possa convergere il proposito delle amministrazioni pubbliche in un’ottica comune di sviluppo sostenibile del territorio. Il settore pastorale, è noto, attraversa fasi di criticità che si ripercuotono sul primo anello della filiera, sull’attività di produzione con una non soddisfacente remunerazione del latte.
Un’opportunità che si propone, per rimuovere la criticità segnalata, attiene proprio alla valorizzazione di questo vasto patrimonio regionale. È, inoltre, da tener conto che la permanenza della situazione attuale, ben conosciuta, rappresentata da diversi casi di sovrasfruttamento del suolo, può favorire un continuo degrado del territorio interessato. Gli interventi da attuare, comunque, devono vedere partecipi, in un’ottica di comune convergenza, le diverse rappresentanze della filiera per risolvere i problemi nel loro insieme, in un quadro volto all’interesse complessivo non solo in termini economici ma anche ambientali e sociali.
Ma c’è ancora un altro aspetto che ha la sua importanza nel contesto dell’esercizio dell’attività produttiva nelle terre civiche. Mi riferisco alla politica agricola comunitaria e alla concessione dei contributi per i fruitori di terre civiche.
Al riguardo, non esiste una norma nazionale, non europea, in quanto l’Europa delega in proposito i singoli Stati. I singoli comuni stipulano contratti annuali con i singoli fruitori dato che la domanda per il premio unico l’imprenditore allevatore lo deve presentare ogni anno. La scelta, come si vede, è operata dal singolo comune mancando, come si diceva, una norma che disciplini questa materia.
Un intervento al riguardo che serva a stabilire dei parametri obiettivi e univoci darebbe una certezza di natura monetaria, al pari degli altri imprenditori agricoli.
Queste considerazioni possono essere valutate al fine di consentire la permanenza nelle terre civiche dei fruitori e promuovere altresì la valenza ambientale di questi territori.
Nuoro 06 settembre 2018