Sinistra Autonomia FederalismoRipartiamo dalle idee e dai territori
Care e cari,
alcune doverose premesse al discorso che mi appresto a introdurre. La prima è che, nel rispetto della richiesta fatami da chi mi ha invitato, tenterò di costruire una cornice teorico-politica per forza di cose generale. Pur avendo contezza di tanti dati, degli strumenti legislativi, delle ipotesi di riforma sul terreno economico e istituzionale, tenterò, per quanto possibile, di non entrare nei campi di riflessione che relatori ben più preparati di me hanno già affrontato o affronteranno nel pomeriggio.
Da anni il tema dello spopolamento conquista le pagine dei giornali o diventa oggetto di studi, convegni eprogrammi di intervento. Io stesso ho studiato le tendenze demografiche, letto analisi e partecipato a riflessioni su soluzioni funzionali al ripopolamento dell’isola, a partire dallesue aree rurali, ovvero tutto ciò che non è Cagliari, Sassari e Olbia. Tuttavia, intravvedo all’orizzonteuna tendenza problematica: la spoliticizzazione della questione, che passa innanzitutto da un isolamento “tecnico” del problema. A mio modesto avviso, lo spopolamento della Sardegna non è un fenomeno da ascrivere semplicemente al generale declino demografico e della fertilità dell’Occidente, ma presenta delle particolarità storiche territoriali. Soprattutto, non va mai visto semplicemente come la causa di tanti dei mali odierni dell’isola, semmai innanzitutto come una conseguenza di scelte politiche, economiche e culturali che hanno investito la Sardegna. La situazione è ormai precipitata e il fenomeno in oggetto è diventato un circolo vizioso, tramutandosi anche in una concausa di diverse questioni sociali, oltre che una conseguenza delle stesse. Di certo ne siamo pienamente invischiati, individualmente e collettivamente, ed è difficile anche soltanto immaginare un’alternativa.
Se da un lato serve discutere e dare gambe a progetti mirati, dalla SNAI al prossimo Piano di Sviluppo Rurale 2021-2027, dagli investimenti sull’occupazione a quelli per la specializzazione produttiva, le infrastrutture materiali e immateriali, i servizi di prossimità, il ruolo della conoscenza, le ipotesi di fiscalità agevolata e a tanti altri temi che ricorrono da tempo, credo sia imprescindibile riportare il tema dello spopolamento in una cornice generale sulla condizione sarda, inserendo le proposte e i progetti in un’ipotesi di riscatto sociale, politico e culturale dell’isola.
Un’ipotesi che scaturisca da una presa d’atto della condizione di subalternità che viviamo e che rifugga da facili soluzioni, da ipotesi di nuovi piani per lo sviluppo scritti senza una mobilitazione democratica con la scusa della situazione di eccezionalità costante, da ricette elaborate da tecnici senza la voce di chi vive ai margini, di chi sente sulla propria pelle una condizione di perifericità che si somma alla generale condizione di precarietà e insicurezza sociale.
Il punto di vista dal quale si affrontano i problemi è sempre importante. Credo vada adottato un punto di vista dai margini,tentando di portarli al centro della riflessione. Una cosa non facile, nemmeno per me che sono aiutato dall’essere un abitante di un margine, Ortueri.
Per immaginare un’alternativa dai margini e per i margini, occorre archiviaredue discorsi dominanti del tempo e dello spazio che hanno informato il pensiero sull’isola pressoché in tutte le ramificazioni del suo tessuto politico, economico, sociale e culturale.
Il tempo dell’isola è spesso stato inteso come il tempo del “non ancora”, dell’incompiutezza, dell’arretratezza rispetto ai paradigmi dominanti dello sviluppo. Il passato sardo è stato visto come una sequela di fallimenti rispetto ai tentativi di emancipazione dalla sua condizione di subalternità, tanto da decretarne così un’assenza di vera storia. Come nota DipeshChakrabarty, noto storico dei Subaltern Studies, i temi del “fallimento”, della “mancanza” e dell’“inadeguatezza”, che caratterizzano le storiografie e le culture subalterne, costruiscono una narrazione che si presta all’immaginazione di quelle dominanti, volte a giustificare processi di modernizzazione coatta e passiva. In vari frangenti della storia sarda, dai Savoia fino ad arrivare a buona parte del dibattito sui Piani di Rinascita, i sardi sono stati convinti che l’unica modalità di autorappresentazione e di sviluppo fosse quella “mimetica” – dalla definizione diHomiBhabha – in perenne transizione verso modelli esogeni.
Una cosa che è valsa ancor di più per le cosiddette “aree interne”, narrate quasi sempre come retrograde e chiuse ad ogni innovazione esterna; in alternativa, in funzione mitodinamica, ma nondimeno fallace, narrate dai sardi stessi come “resistenziali”. Come ci insegnano Gramsci e Said, bisogna mettere in discussione queste storiografiee “immagini”, perché risultano essenziali per il mantenimento della subalternità di singoli o gruppi sociali, e per la riproduzione di una molteplicità di forme di sfruttamento.
La subalternità non è mai passiva, essendo in una relazione dialettica col suo opposto, l’egemonia. Essa prevede una parte di consenso attivo da parte dei subalterni stessi. Se vogliamo ragionare del futuro della Sardegna dobbiamo essere i primi a smetterla di dipingerci come una comunità inoperosa, frazionata, sottosviluppata; dobbiamo smetterla di aspettare soluzioni o richiedere compensazioni per la nostra presunta “specialità” geografica ed economica. Dobbiamo iniziare ad essere responsabili –seguendo l’etimologia latina,dando dunque delle risposte ai nostri problemi –, scegliendo nuove strade, battendo il nostro tempo. Dobbiamo coltivare, sempre tornando al pensiero gramsciano, un sano “spirito di scissione”, ovvero un progressivo acquisto di coscienza della nostra personalità storica.
Altro paradigma discorsivo da cui depurarci è quello dello “spazio Sardegna”, dipinto perlopiùcome esotico e pittoresco, paradiso turistico nelle coste e purgatorio tra delinquenza e senso dell’ospitalità nelle famose “zone interne”. Si tratta di un complesso apparato discorsivo alterizzante sui luoghi e sugli abitanti dell’isola che dal punto di vista del turismo di massaha soddisfatto il desiderio esotico dell’osservatore esterno, mentre implicitamente è servito spesso a giustificare sceltee pratiche d’eccezione sugli abitanti e sulle risorse isolane. Se tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 ha permesso gli stati di assedio contro il banditismo, negli anni ’70 ha aiutato ad esempio adifendere l’insediamento industriale di Ottana; oggi, un discorso simile sulla desolazione, la desertificazione del territorio e l’assenza di alternative, aiuta per esempio a giustificare l’ingente presenza militare nell’isola.
Anche in questo caso,noi sardistiamo giochiamo una parte rilevante nella commedia. Il risultato è una scissione tra realtà e immaginario, tra il luogo che noi viviamo ogni giorno e l’immagine dello stesso che viene raccontata e che noi stessi raccontiamo. È una scissione interiore, che porta a una mancata consapevolezza di sé, dei problemi del territorio, del proprio lavoro, della comunità. Così va a finire che, come sosteneva Giulio Angioni, il sardo non sembra presente a se stesso, continuamente insoddisfatto, sofferente e vergognoso per quello che è, pronto a prostrarsi di fronte al miglior offerente per essere promosso al benessere, a partecipante del modello del cittadino-consumatore che si spoglia di ogni residuo di “località”, salvo poi mascherarsi le sere d’estate per confermare l’immagine dell’isola di cui parlavo poc’anzi. Sono passati gli anni ma resta rappresentativa la risposta che, alcuni componenti di un gruppo folk che si esibiva agli albori della Costa Smeralda, davano all’antropologo Bachisio Bandinu: «nos mascaramus», “ci mascheriamo”, facendo credere che da noi è tutto un gioco; ’achimussospaliatzos ma nessi ’idimusluche de deus (facciamo i pagliacci ma almeno vediamo luce di dio)». Sembra questo uno dei pochi modi per fuoriuscire da una presunta condizione di minorità.
Diceva Ciccitu Masala che una notte, nel mezzo di un sogno, Tolstoj gli aveva sussurrato all’orecchio: “descrivi il tuo villaggio e diventerai universale; se cerchi di descrivere Parigi, diventerai provinciale”. Serve uno sforzo decisivo: tornare a studiare e discutere diffusamente e collettivamentedella realtà sarda in tutti i suoi aspetti, degli spazi, dei luoghi, dei depositi di storia che oggi non riusciamo a comprendere, delle potenzialità latenti. In seguito, mettere a critica l’universo simbolico dominante, neutralizzando la sua pretesa di centralità e unicità, e costruendone uno nuovo, che mi piace definire sardo-globale, in grado di dare un nuovo senso all’agire politico e socialetendenteall’emancipazione e capace di costruire nuove visioni che informino la contingenza e che rompano con la riproduzione stanca di quest’ultima.
Per interrogarsi sulla “questione sarda” contemporanea, con un occhio privilegiato alla Sardegna di dentro, bisogna partire dalle trasformazioni avvenute con la globalizzazione delle attività economiche da un trentennio a questa parte.
La globalizzazione capitalista, contrariamente alle sue promesse, non ha prodotto uno spazio liscio dove tutti hanno le stesse possibilità.Al contrario, il capitale globale ha la necessità di produrre e assemblare spazi economici e produttivi diversificati, come illumina AihwaOng nel suo Il neoliberalismo come eccezione. Assemblaggi che entrano in rapporto con gli stati, i quali svolgono ancora un ruolo importante nel consolidamento di processi economici transnazionali. Come evidenzia Arrighi, il processo che ha portato lentamente al consolidamento del “mercato globale” ha sempre visto una contraddizione tra la sua natura “globale” e la sua articolazione territoriale e nazionale, connotata da linee, zone e confini spaziali, giuridici ed economici che rafforzanodisuguaglianze strutturali.
Accanto ai governi degli stati, la cabina di regia delle trasformazioni globali è composta da organizzazioni regionali e globali, grandi multinazionali, “città globali”, reti e network istituzionali sovranazionali o privati.Il mondo appare suddiviso in enormi blocchi di produzione, come ben sottolineano Sandro Mezzadra e Brett Neilson in Confini e frontiere: su tuttiil Nafta, la Ue, l’Asia-Pacific EconomicCooperation (Apec), il MercadoComún del Sur (Mercosur), l’Organizzazione degli Stati Americani (Osa), la Lega Araba. Essi mostrano vari gradi di formalizzazione politica o costituzionalizzazione, funzionando in alcuni casi attraverso forme complesse di governance multilivello ed eterogenea come il “metodo di coordinamento aperto” della UE. Ma se la UE è forgiata, come sappiamo, attraverso negoziazioni multilaterali, ciò che per esempio avviene in Cina è frutto delle strategie amministrative e delle tecniche di zoningdello Stato cinese. Non a caso si parla di “Grande Cina” per indicare la nuova configurazione regionale asiatica sempre più emergente nel commercio transfrontaliero. Ciò significa che non esistono dei processi automatici e che, in sintesi, da un lato la governance mondiale mette in discussione la sovranità dello Stato-nazione, financo dal punto di vista simbolico, dall’altro gli stati operano attivamente, contribuendo al proprio de-centramento economico e giuridico e disaggregando componenti per favorire l’intervento di nuovi poteri.
Se dunque ci chiedessimo dove si trovano le élite che decidono sulle nostre teste, dobbiamo essere consapevoli che il potere si trova in molte mani e in molti luoghi, non solo a Roma o a Bruxelles. Tuttavia, ciò non ci deve portare a dismettere gli strumenti dell’analisi sulle disuguaglianze e su dove e in che mani si concentrano le ricchezze. Esistono, infatti, dei coaguli di poteri economico, politici e finanziari. Sono i nuovi “centri” che assumono il ruolo di “nodi” nella rete capitalista globale. Parlo delle “città globali”, tematizzate daSaskiaSassen, che assolvono alla necessità, da parte del capitale, di localizzare determinate componenti. Le grandi città operano come punti strategici per le società finanziarie, ma anche come luoghi di produzione, di scambio di innovazione, di direzione e controllo. Sono la condizione per la dispersione spaziale delle attività economiche,chesi può reggere soltanto sull’accentramento delle funzioni e delle operazioni. Le tecnologie informatiche, contrariamente a quanto spesso si pensa, oggi contribuiscono alla concentrazione spaziale dei poteri di gestione e delle ricchezze, giacché rendono possibile la dispersione territoriale e la simultanea integrazione di molte attività.
La globalizzazione ha dunque costruito una nuova geografia delle centralità e della marginalità. Ci sono le città “globali” dove si concentrano immense quantità di potere economico, mentre crollano le città meno centrali, le regioni destinate alla periferia dei cicli della produzione e al consumo dei beni dei centri dello stesso, einfine le aree “interne” complessivamente marginali ed emarginate ma non per questo non sfruttate massivamente. Il capitalismo nella sua fase postfordista dunque non è un semplice reticolo logistico e informatico dove si spostano merci e dati utili ai nuovi processi di accumulazione, ma presenta delle strutturali disuguaglianze territoriali tra blocchi di produzione dominanti e subalterni, tra città globali e territori marginali.Non si tratta di un errore di sistema: è il sistema stesso che ha bisogno di produrre ingiustizie e una distribuzione diseguale della ricchezza e della produzione, per poter governare al meglio la forza lavoro e realizzare il massimo dei profitti.
Di fronte a questa considerazione c’è chi, a partire dagli anni ’60 e ’70, iniziò a mettere in contraddizione l’assunto del marxismo ortodosso per il quale il capitalismo avrebbe teso progressivamente ad occupare tutto lo spazio economico, arrivando a rivoluzionare le preesistenti forme organizzative di produzione, nell’ottica di un inarrestabile progresso scientifico ed economico che avrebbe dovuto portare ad una fase di massimo sviluppo del capitalismo che avrebbe a sua volta aperto alle possibilità di un rovesciamento dei rapporti di produzione da parte del proletariato e del suo general intellect pienamente sviluppato.
Anche nell’isola, buona parte dei movimenti che si manifestarono tra la fine degli anni ’60 e ’70 in relazione alle distorsioni dell’industrializzazione, proposero come chiave di lettura quella della “dipendenza”. La tesi di quest’ultima, proposta dall’economista AndrèGunder Frank, poi ripresa da Samir Amin e sviluppata da Immanuel Wallestein, sosteneva che i paesi del Terzo Mondo – che costituiscono la “periferia” – fossero inseriti in un ordine economico globale in cui i loro processi fossero determinati esclusivamente dalle necessità del “centro”. In altri termini, leggendo diversi indicatori, tra i quali il differenziale salariale tra centro e periferia, che starebbe a indicare un modello di scambio diseguale tra i due attori, la teoria della dipendenza considerava lo sviluppo e il sottosviluppo come due parti inseparabili dell’economia globale. La volontà di Frank era insomma quella di comprendere le parti precapitalistiche come un contemporaneo del capitale piuttosto che come un passato che quest’ultimo non riesce a trasformare. Nonostante l’indiscutibile avanzamento teorico e politico di questi pensatori, continuare a sostenere una tale lettura per l’isola, molto spesso per confermare teoricamente un rapporto di natura coloniale con lo stato italiano, significherebbe sostenere l’ipotesi che l’isola sia sottosviluppata, aderendo ad una visione di sostanziale impossibilità, da parte della nostra“periferia”, di assumere determinati elementi dello “sviluppo” dei centri, sia pure in un rapporto di subalternità.
La Sardegna contemporanea, se vale quanto è stato detto in precedenza, non può rientrare in queste rigide categorie. Certo, ha delle particolarità che ci parlano di un tessuto produttivo debole e relegato ad una funzione subalterna nel quadro europeo e italiano, ma non per questo non eterogeneo e potenzialmente dinamico. Alcuni dati emblematici: la dimensione media delle attività produttiveè molto ridotta, pari a 2,8 addetti per impresa (il centro-nord ne ha 4,2). Le microimprese sotto i 10 dipendenti sono oltre 100 mila e rappresentano quasi il 97% del totale. La dimensione così contenuta del complesso delle attività produttive, in assenza di politiche che favoriscano la cooperazione e la creazione di filiere, ha risvolti negativi per quanto riguarda la capacità innovativa, l’adozione di nuove tecnologie, l’apertura di mercati internazionali. Qui, ciò che si esporta di più, è il prodotto della trasformazione di una materia prima non presente sul territorio, il petrolio, che coprel’83% di tutto l’export, seguito dai prodotti chimici e dalle armi. Per dare una misura della distorsione, i prodotti del settore lattiero-caseario, che subiscono una contrazione per il terzo anno consecutivo, compongono soltanto l’1,6% del totale.
Altri indicatori importanti per comprendere la particolare condizione di subalternità economica, politica e culturale dell’isola sono quelli della filiera della conoscenza: l’abbandono scolastico è pari al 21,2%, il peggiore nel contesto italiano, tra gli ultimi a livello europeo dove la media è al 10,9%; i giovani che non studiano e non lavorano si attestano al 24,1%, un tasso tra gli ultimi a livello europeo (10,9%) e al di sopra della media nazionale (20,1%); l’isola spende il 28% della media europea (contro il 68% dell’Italia) in investimenti in Ricerca e Sviluppo; nel 2017, i laureati di 30-34 anni risultano pari al 23,6% della popolazione nella stessa fascia d’età, un valore molto al di sotto del corrispettivo europeo (pari al 39,9%). Se poi si legge la percentuale di scienziati e ingegneri, essenziali per i processi di innovazione, l’isola ha una percentuale del 3,9%, rispetto alla media nazionale del 4,1% e di quella europea del 7,2%. Sono dati che ci dicono che l’isola non investe e non ha una programmazione adeguata per fare dei saperi di qualità un volano per lo sviluppo. Si tratta di una mancanza o di una drammatica conseguenza del ruolo subalterno a cui è stata costretta la Sardegna? Sarebbe rassicurante credere nella prima opzione, è realistico credere nella seconda.
Senza concentrarci sul tasso di attività della forza-lavoro, sulle percentuali di disoccupazione e su tanti altri indicatori, sui quali si registrano le medesime dinamiche nazionali (ad esempio l’aumento dei part time e del tempo determinato e non dell’occupazione stabile), ciò che è decisivo è provare a riconoscere i tratti del modello economico e sociale isolano, la sua funzione nello scenario nazionale e globale, il ruolo delle classi dirigenti sarde, i riflessi di tutto questo sulla popolazione.
Partiamo da lontano, toccando due periodi di svolta dell’economia e della società sarda: il XIX secolo, che ha visto un primo processo di capitalizzazione dell’isola in chiave predatoria, accompagnata da una rivoluzione passiva – la “perfetta fusione” – che ha impedito l’affermarsi di una classe borghese dinamica e non subalterna; gli anni ’60 del XX secolo, nei quali le classi dirigenti sarde hanno attivamente sostenuto un processo di penetrazione capitalistica che tradì lo spirito originario del Congresso del Popolo Sardo del ‘50, consegnando ai tecnici la definizione di un piano di Rinascita basato sul progetto dei poli di sviluppo. L’hanno fatto in un clima generale di aspettativa e speranza, con la stragrande maggioranza degli intellettuali schierati in difesa della modernizzazione e con le forze sociali e politiche attivamente impegnate nel tentativo di dirigere quest’ultima. Il risultato è stato che la “transizione” ad un’economia capitalistica autopropulsiva non si è mai realizzata, con effetti di lungo raggio che ci toccano ancora.
Oggi, come ho provato a riassumere, la Sardegna è pienamente inserita nelle trasformazioni globali del capitalismo che vedono una proliferazione di disuguaglianze economiche, giuridiche e territoriali, che si sommano ad un’intensificazione del lavoro e ad una sua moltiplicazione che tende all’informalizzazione dei rapporti di lavoro, ad una fuga dalle regole della contrattazione. Il capitalismo contemporaneo fa uso di dispositivi di varia natura per gararchizzare e controllare la forza-lavoro, con un ritorno sempre più evidenti di discorsi razziali ed etnici funzionali ad un’inclusione differenziale di fasce della popolazione all’interno dei processi produttivi, lasciandone altre “in panchina”: il caso più celebre è la Germania della Merkel che nel 2016 aprì le porte ai profughi siriani, mascherando gli interessi delle imprese per le alte qualifiche della forza lavoro come un atto di apertura e integrazione. Ma questo ci apre un altro piano del dibattito sull’uso politico dei confini che per motivi di spazio è bene non aprire.
Giungendo al termine della riflessione sulla condizione attuale, l’isola appare integrata nel mercato globale ma relegata ad una funzione subalterna dal punto di vista economico, sociale e politico. Su di essa insistono forme di sfruttamento e controllo particolari rispetto ad altri contesti, ma in ogni caso proprie del capitalismo contemporaneo che, secondo diversi studiosi, assume caratteristiche postcoloniali, utilizzando dispositivi propri del periodo coloniale in chiave nuova. Secondo l’economista indiano KalyanSanyal, quest’ultimo prevede un processo duale altamente insidioso che consta di una continua accumulazione originaria che allontana i diretti produttori dai loro mezzi di lavoro, creando una terra desolata costituita da coloro che ne sono stati espropriati e privati, mentre, parallelamente, viene allestita un’economia del bisogno finalizzata al loro riscatto.
Come non pensare al processo di svuotamento delle campagne e di immissione della forza-lavoro all’interno dell’industria petrolchimica e chimica! I produttori sardi sono stati allontanati dalle loro risorse primarie, con un attacco ai loro saperi e saper fare connessi alle peculiarità geografiche e culturali dell’isola. Il risultato è stato un vero e proprio “scasso” antropologico, una mancata conciliazione tra iscambales e il caschetto operaio, uno spaesamento a tratti morboso di migliaia di sardi che avevano rinunciato all’innovazione del loro mondo seguendo il miraggio di un modello industriale drogato da soldi pubblici, non basato sulla trasformazione di materie prime presenti nell’isola e non funzionale alla creazione di un indotto e di nuove filiere.
Il collasso delle promesse “industriali” ha imposto un ribaltamento dell’accumulazione originaria, concretizzatosi nella creazione di un’economia del bisogno basata sul drenaggio di risorse verso gli strati della popolazione progressivamente esclusi dal lavoro. Con ciò mi riferisco alle migliaia di cassintegrati, disoccupati, sottoccupati, giovani legati all’economia informale, che sono divenuti destinatari negli ultimi tre decenni di politiche di welfare volte ad ammortizzare l’assenza di un’occupazione stabile.
Nei decenni più recenti, invece, si stanno manifestando sull’isola processi di accumulazione per spossessamento o spoliazione – definizione adottata da David Harvey per indicare una rinnovata fase di accumulazione originaria basata sull’espropriazione formale o informale, a volte violenta – a vantaggio di imprese nazionali, internazionali o dello Stato stesso: conclusa l’epopea dell’industria, essi si sono tradotti nel consolidamento della presenza militare in vaste aree dell’isola, nell’ipotesi di stoccaggio delle scorie nucleari, nella privatizzazione formale e informale di porzioni di territorio da parte dell’industria turistica, nei progetti di metanizzazione che sottrarranno 5 mila ettari a spese dei sardi e a favore di alcune lobby per un vecchio progetto energetico ormai obsoleto. I processi in atto sull’isola sembrano guardare alle possibilità che si potrebbero concretizzare nei prossimi decenni con il progredire dello spopolamento e la liberazione di vaste aree dai deboli insediamenti produttivi. L’isola è ricca di materie prime, di bellezze naturali, di ampi luoghi utilizzabili per il deposito di materiali, per le esercitazioni militari e per l’insediamento di piattaforme energetiche, che apparirebbero definitivamente privatizzabili e sfruttabili soltanto con il venire meno degli abitanti dell’isola, o quantomeno con il loro assembramento neicentri urbani maggiori.
In questo quadro, il classico discorso sul ritardo dello sviluppo si è dotato di nuove vesti: esso oggi ha bisogno di narrare la costante necessità di inserire i diseredati e gli esclusi dalle attività produttive all’interno dell’economia, dotandoli del giusto tanto per soddisfare i bisogni primari. In relazione a questa tendenza, sento il dovere di fare alcune precisazioni. Prima di tutto non c’è una relazione diretta tra i processi di accumulazione per spossessamento e la creazione dell’economia del bisogno: i primi, nell’isola, all’inizio con l’industrializzazione e poi con le nuove forme sopracitate, hanno semplicemente creato desolazione ed esclusione. L’economia del bisogno si è attivata come reazione che ha relativamente funzionato fino ad ora ma che non è detto che garantisca la pace sociale ancora a lungo, dipendendo dallo stato di salute delle finanze pubbliche e, di conseguenza, dalla capacità di spesa dello Stato in relazione al suo debito sottoposto alle fluttuazioni della speculazione finanziaria. L’economia del bisogno però non presenta soltanto una funzione di sussistenza degli esclusi dalla produzione: essa comporta anche la creazione di uno spazio di produzione informale non destinata all’uso privato, e dunque al consumo immediato di valori d’uso, bensì a una produzione di valore di scambio volta ad acquisire, attraverso la mediazione del mercato, il paniere di beni di consumo necessari. In quello che Sanyal definisce come lo spazio dell’“economico postcoloniale”, il capitalismo estende il suo raggio di azione oltre il rapporto salariale riconducendo gli esclusi da quest’ultimo all’interno dello spazio del mercato. Anche in Sardegna, il proseguo del processo di accumulazione per espropriazione, ha prodotto una terra di esclusi dal classico sfruttamento di classe. L’affermazione di una “inclusione escludente” degli esclusi si è dimostrata come una duplice necessità: da un lato politica, perché ha consentito una gestione della popolazione sarda attraversata, soprattutto negli anni ’70, da tendenze politiche e culturali che mettevano in discussione gli assetti economici e le architetture istituzionali e, più in generale, da una forte sfiducia verso la rappresentanza politica; dall’altro, essa ha consentito di scaricare sulla fiscalità generale una parte del costo della riproduzione della forza lavoro, dato che il complesso di politiche di welfare coprivano i bisogni di prima necessità, lasciando che il reddito da salario servisse per una parte quantitativamente minore della popolazione.
Tutto ciò ha permesso la stabilizzazione della condizione subalterna dell’isola dal punto di vista economico e a cascata politico, sociale e culturale. Sebbene le politiche di welfare si stiano progressivamente ritirando, si riscontra ancora una relativa “pace sociale” poiché, effettivamente, per diversi decenni, esse hanno permesso il mantenimento di un livello di vita non relazionato all’effettiva base produttiva, rimasta debole e poco dinamica per via del fallimento delle politiche di sviluppo e per il mancato sostegno e innovazione dell’economia autoctona. Ben presto, questa modalità di governo mostrerà la sua artificiosità, evidenziandole ferite di un passato coloniale e subalterno che presenterà il suo conto salato nei confronti delle classi dominanti isolane e statali che hanno “spremuto” la Sardegna e i suoi gruppi subalterni. Appare ormai tragicomica la condizione della gran parte della classe politico-amministrativa sarda che prima svolse il ruolo di intermediario per i capitalisti del Nord e ora, a valle della sbornia sulle promesse della globalizzazione, prova con difficoltà ad iniettare liquidità nei confronti delle molteplici categorie di esclusi, senza avere alcuna possibilità di indirizzare incisive politiche atte a risolvere l’esigenza di una via di sviluppo finalmente endogena ed emancipata da relazioni neocoloniali.
Il motivo della lunga riflessione precedente credo si evinca pienamente soltanto ora: i problemi della Sardegna si possono identificare se si registrala sua posizione subalterna nel quadro nazionale ed europeo, se si identificano le responsabilità della classe dirigente politico-amministrativa che nei decenni si è resa complice di processi di sfruttamento e impoverimento, se a partire da questi elementi si individua una nuova strategia politica di lotta per l’emancipazione. Senza questo, non credo vi sia la possibilità di provare ad arrestare lo spopolamento, la fuga dei giovani, la depressione economica e sociale, le psicopatologie in aumento, a perdere il primato dei suicidi.
Che fare dunque? Innanzitutto, ci dobbiamo armare di tutta la migliore capacità creativa, rompendo con il fatalismo che rende improduttivo il fare. E stavolta non bisogna partire da freddi tavoli tecnici tra pochi esperti, ma dall’attivazione di un processo realmente democratico, capace di suscitare entusiasmo, messa a disposizione di tempo e competenze, con l’obiettivo innanzitutto di “capacitare” le comunità locali, non semplicemente di ottenere una distribuzione migliore delle risorse. Amartya Sen, definisce “capacitazioni” (capabilities) l’insieme delle risorse relazionali di cui una persona dispone, congiunto con le sue capacità di fruirne e quindi di impiegarlo operativamente; in poche parole, c’è bisogno di un processo ragionato che, hic et nunc, punti ad affrontare lo “smagliamento” del reticolo sociale e quindi la perdita di relazioni, con la conseguente riduzione del sostegno sociale, delle proprie capacità e della propria competenza ad agire. Dobbiamo iniziare a ottimizzare ciò che abbiamo, appassionandoci all’obiettivo, facendone una ragione valida d’impegno.
In secondo luogo, va elaborata una proposta complessiva per un’alternativa di Sardegna che, se ambisce a ripartire dai paesi – come stiamo facendo in questa sede – e da un loro ripopolamento, non solo implicherà una battaglia sul piano regionale, nazionale ed europeo per emancipare l’isola nel suo complesso dalla condizione di subalternità e dipendenza economica e politica, ma avrà bisogno di sollecitare una vera e propria rivoluzione culturale per affrontare un fattoremultidimensionale di crisi dei nostri contesti, ovvero l’affermazione del modello di vita metropolitano.
Un modello di vita che, in Italia, si è affermato nel secondo Dopoguerra come correlato della fordizzazione accelerata del capitalismo nostrano che ha portato a un progressivo abbandono delle Alpi, degli Appennini, a una marginalizzazione dell’armatura urbana storica delle piccole e medie città, a un esodo dal Sud e dalle isole e alla costruzione delle aree metropolitane della pianura padana come esito del processo di massificazione del lavoro operaio. Con la trasformazione incorsa nell’ultimo trentennio, con l’esplosione delle reti virtuali che hanno permesso di mettere in contatto attività produttive, di consumo, di fruizione estetica, di socializzazione, fino a permettere gli incontri sessuali, il processo di deterritorializzazione, di disconnessione tra l’abitante di un luogo e il suo luogo di vita propriamente inteso, inteso sempre più come un’appendice, sempre più povero di segni e significati rispetto alla densità crescente di informazioni e attività connesse allo spazio virtuale, è diventato apparentemente irreversibile. Il modello spaesante del just in time, dell’interazione virtuale fondata sulla gradevolezza on demand, della dissociazione tra la figura del lavoratore e quelladel consumatore, dell’imprenditore di se stesso, ertosi a modello egemonico con la svolta neoliberale dell’ultimo trentennio, insiste ovunque, dal quartiere di Milano sino al centro di Ortueri o di Armungia. È un modello che, come sottolinea Alberto Magnaghi, porta nuove povertà indotte dai paradigmi della crescita quantitativa: di qualità dell’abitare, ambientale, identitaria, territoriale. A queste povertà si somma una condizione di perifericità diffusa che si sostanzia nell’assenza di spazi pubblici e di relazione, nella bassa qualità dei servizi, nella disgregazione sociale, nei problemi di convivenza multietnica, nella criminalità.
La necessità di inventare un nuovo modello economico, sociale e politico per la Sardegna di dentro non può che fare i conti con tutto questo, ovvero con la messa in discussione del modello di vita egemone, con la risposta alle povertà di cui parlavo poc’anzi, con la costruzione di nuove comunità che soppiantino l’individualismo e le sue facce nascoste, la solitudine e la depressione. Il tema non è dunque “come far crescere il PIL e l’occupazione dei paesi della Sardegna”, bensì “come costruire un progetto di società desiderabile e radicalmente alternativa, a partire dalle piccole azioni del quotidiano e dalla paziente costruzione di nuovi ecosistemi territoriali”. E ciò non significa cercar di creare isole felici in sostituzione di una battaglia generale per una società più giusta; significa bensì cercare una strada nostra per praticare l’alternativa sin da presente, senza demandarla al possibile.
Vi sono due concetti cardine per un progetto per la Sardegna di dentro che punti alla rottura della subalternità.
Il primo è il concetto di “locale”, che comporta una nuova discussione attorno al come fare economia nei nostri territori, come fare i conti e come ripensare la complessa eredità culturale della nostra storia, come affrontare nella propria prossimità la drammatica questione ecologica che si sta imponendo finalmente a livello globale e che è strettamente connessa alle distorsioni del capitalismo globale, dal suo sfruttamento delle risorse ai modelli di consumo, dalle grandi concentrazioni metropolitane alle sue produzioni altamente inquinanti.
Altro concetto chiave è quello di “autosostenibilità”, che implica una nuova cultura di autogoverno e di cura e produzione del territorio da parte degli abitanti. Mi limiterò a toccare alcuni nodi, vista l’ampiezza dei temi e data la premessa di non voler trattare in maniera specifica i punti programmatici.
Innanzitutto, va ricercata una autosostenibilità politica, che significa innanzitutto innescare processi di responsabilizzazione delle comunità.Le radici della storia delle lotte per l’emancipazione stanno nell’autonomia delle persone, nella responsabilità dei singoli, in una vita pubblica non separata dalla dimensione etica. Nella distinzione, scriveva Vittoria Foa, “che politica non è solo comando, è anche resistenza al comando, che politica non è, come in genere si pensa, solo governo della gente, politica è aiutare la gente a governarsi da sé”. Nella convinzione, aggiungeva Bruno Trentin, “che l’utopia della trasformazione della vita quotidiana debba diventare il modo di fare politica”.
Sul piano regionale, serve immaginare un progetto di federalismo interno che dia nuovi poteri alle aree non urbane – se si escludono Cagliari, Sassari e Olbia, tutto il resto dell’isola – col fine di costruire un nuovo equilibrio.Non bastano nuove risorse che diano fiato alla politica di prossimità: serve una nuova idea di governance federale che assicuri la partecipazione dei poteri locali alla definizione dell’assetto territoriale generale dell’isola e dello sviluppo equilibrato e sostenibile di tutti i settori in tutti i territori. Va approntata una riforma amministrativa e un decentramento nei vari territori degli uffici di pertinenza regionale e l’attribuzione diretta agli Enti locali di tutte le materie non espressamente riservate alla Regione. Bando ai vecchi e nuovi centralismi amministrativi e burocratici: serve una Regione che sostiene gli Enti Locali, che rompe le perifericità, che utilizza le migliori tecnologie per informare e permettere la partecipazione.Il riscatto della Sardegna, se ci sarà, partirà dai comuni, da nuove amministrazioni giovani e coraggiose che metteranno testa e cuore nella ricostruzione del tessuto delle comunità, incentivando la partecipazione, creando forti legami sociali. Amministrazioni che, nel loro piccolo, perseguano alcune parole chiave: strutturazione, integrazione, autonomia, efficienza, innovazione. Amministrazioni che riportino il più possibile il potere tra le persone, che lo immaginino come verbo e non più come sostantivo freddo, lontano, riservato a pochi.
Va poi ricercata l’autosostenibilità sociale: immaginare un percorso di emancipazione che passi innanzitutto dall’empowerment delle comunità significa far di tutto affinché nessuno resti indietro. I nostri paesi sono profondamente diseguali per quanto riguarda la possibilità dei singoli di poter far sentire la propria voce, le proprie idee e progetti. Non ci possiamo limitare ad immaginare una costruzione di un moderno sistema di welfare e servizi alla persona, conedilizia residenziale pubblica, asili nido, consultori, interventi per il sostegno alla genitorialità, ospedali, un reddito da destinare a tutti i soggetti in formazione e via dicendo. La Sardegna sarà socialmente giusta quando si riusciranno ad abbattere le barriere di accesso all’informazione, alle risorse economiche e culturali basilari, affinché tutte le persone possano prendere parola.Per quando mi riguarda, non esiste uguaglianza senza soggettivazione politica, ovvero senza, nelle parole del filosofo Ranciere, «la produzione, tramite una serie di atti, di una istanza e di una capacità di enunciazione […]. Un nos sumus, nos existimus».
Ma una nuova società sarda passa anche da nuovi modelli di integrazione e accoglienza: la Sardegna è sempre stata crocevia nella storia, formando la sua identità nell’interazione con altri popoli. Chi arriverà a cercare un futuro qui, diventerà anche parte del nostro. E dunque contribuirà a costruire le comunità, il lavoro e i saperi del futuro, sempre più ibridi, meticci e aperti alle differenze: una straordinaria opportunità per affermare una sardità consapevole, fondata sulla libera scelta e non – stupidamente – sulla provenienza.
Vi è poi l’autosostenibilità economica che chiama ad una nuova integrazione tra territorio, ambiente e produzione. Bisogna mirare a un modello di sviluppo generativo e non estrattivo, in grado di moltiplicare e non di sottrarre salute e benessere.C’è bisogno di una politica regionale che favorisca una nuova localizzazione produttiva,incentivando – anche con la leva fiscale – le attività che puntano sulla qualità del lavoro, sull’innovazione tecnologica, sul benessere di chi lavora, su produzioni ecologicamente sostenibili; sulle attività che, in altre parole, rispettano l’articolo 41 della Costituzione. C’è bisogno di immaginare e promuovere la formazione di filiere produttive intersettoriali, in grado di coinvolgere tutto il territorio nella produzione, trasformazione, diversificazione e distribuzione di prodotti connotanti. La Sardegna non può più ricadere in miraggi monocolturali, ma deve promuovere economie distrettuali in tutta l’isola. Non dovremmo più aver il bisogno di grandi aziende che producono bombe, armamenti, prodotti dalla raffinazione del petrolio e prodotti chimici, ma di industrie dell’agroalimentare, della bioedilizia, dell’erboristica, del riciclo e via dicendo, di zone artigianali dove imprese diverse, specializzate in fasi diverse del ciclo produttivo, sono capaci –per esempio – di proporre al mercato una casa completa con il nostro sughero, il nostro granito, le nostre lavorazioni del ferro.
Serve infine immaginare un piano per l’occupazione fondato sul rilancio delle opere utili e dei servizi pubblici nel territorio, oggi sempre più impoverito e desolato, e sulla riqualificazione e sulla bonifica delle aree industriali. Decentrare e redistribuire le possibilità di un’occupazione di qualità è una strada imprescindibile se si vuole costruire un’omogeneità di benessere, redditi e opportunità in tutta l’isola, contribuendo a rendere attrattiva la vita nei paesi.
Il turismo, in questo quadro, non è un qualcosa di sconnesso da ciò che sono i territori, ma sarà integrato al rilancio economico e produttivo. Esso dovrà puntare sull’approccio esperienziale, sulla scoperta delle produzioni, dei parchi e delle aree naturali protette, sulla ricettività diffusa, sulla promozione delle attività e dei beni culturali. La più grande opportunità dell’isola è la sua differenza storica, culturale e geografica.
Sull’ambiente, non si può che partire dalle azioni di tendenziale chiusura dei cicli (acque, rifiuti, alimentazione, energia), per poi rivoluzionare i trasporti, creando un nuovo piano della mobilità per le aree rurali legato alle esigenze di spostamento della popolazione, puntando alla diminuzione dello spostamento con la macchina privata. La Sardegna di dentro si presta a un sistema di trasporto plurimodale e, in prospettiva, sempre più sostenibile.Nondimeno bisogna stimolare i territori affinché si renda multifunzionale l’agricoltura, per proteggere l’ambiente e le peculiarità locali, conservare la biodiversità, garantire la sicurezza alimentare. Un’agricoltura che vende direttamente i propri prodotti, ma pure che svolge attività didattiche, che cura e mantiene il verde pubblico, che previene il dissesto idrogeologico, che gestisce le aree venatorie e la forestazione, che per finire eleva il potenziale turistico di una determinata area e contribuisce allo sviluppo rurale del territorio.
Ma l’isola ha bisogno di tanto altro: dello stop all’esercitazioni militari, della progressiva riduzione delle servitù fino alla loro scomparsa, della bonifica di tutte le aree militari e industriali inquinate. Abbiamo già pagato troppo in termini di salute e opportunità di sviluppo mancate.
Occorre infine un piano energetico regionale che miri ad abbandonare il fossile in favore dell’energia rinnovabile, che finanzi le politiche di risparmio energetico, che invogli i privati all’autoproduzione.
Serve costruire in maniera partecipata una nuova visione sull’architetturaurbanistica e paesaggistica, smettendo di consumare altro suolo, puntando sulla ristrutturazione e riqualificazione di costruzioni esistenti e centri storici, diffondendo a rete i servizi rari, valorizzando pochi spazi pubblici ma rendendoli nuovamente attraversabili, dei veri e propri beni comuni dove ri-conoscersi ed educarsi alla vita comune. Nei paesi bisogna ricostruire le dimensioni di vicinato che favoriscono lo sviluppo di relazioni di scambio non mercantili, di reciprocità e fiducia.
Le scuole e le università dovranno giocare un ruolo decisivo. Senza un loro potenziamento e profonda riforma è difficile immaginare discorsi sulla formazione permanente e sulla di ricerca, decisivi se si vuole finalmente perseguire l’obiettivo di costruire una società della conoscenza, se si vogliono liberare le persone attraverso la liberazione dei saperi. È forse la battaglia più rivoluzionaria che si possa fare, perché è alla base di una piena democratizzazione dell’isola; come diceva Edgar Morin, una democrazia compiuta è per forza di cose una democrazia cognitiva.
La Sardegna ha bisogno di una nuova legge regionale sul diritto allo studio capace di disegnare un nuovo sistema di servizi e welfare studentesco in grado di rispondere ai nuovi bisogni dei giovani. L’abbandono scolastico non si combatte soltanto tendendo alla gratuità dell’istruzione, ma facendo in modo che tanti elementi del contesto, dalla biblioteca all’attività produttiva, dalla vigna al laboratorio artigianale, entrino a far parte di un progetto integrato di formazione. Abbiamo bisogno di paesi e città educative, in cui i giovani possano sviluppare saperi e competenze generali ma anche contestuali. Solo così il figlio del pastore potrà un giorno prendere in mano l’attività del padre e innovarla; solo così comprenderà la ricchezza del suo lavoro. Serve una scuola che sfrutti al meglio l’autonomia scolastica, che sappia parlare in sardo, italiano, inglese, che si ponga al centro dei territori come palestra di democrazia e cittadinanza. Serve riprenderela scuola immaginata da Mialinu Pira ne La rivolta dell’oggetto, quella capace di integrare le scuole “improprie” che via via si perdono e che costituiscono un’immensa ricchezza per le nostre comunità, poiché mettono in dialogo intergenerazionale i saperi.
Ma serve pure una visione coraggiosa sull’università. Il discorso sarebbe lungo, ma credo che, oltre ai finanziamenti tanto passi da una territorializzazione maggiore e diffusa dei corsi di laurea, dei laboratori di ricerca, dei corsi di specializzazione. Bisogna immaginare un sistema interconnesso a rete in cui, con trasporti adeguati, si possano distribuire uno o più nodi della rete universitaria legandoli alle peculiarità culturali, ambientali, storiche del luogo. In tal modo si ridurrebbe la pressione abitativa su Cagliari e Sassari, si registrerebbe un aumento della ricchezza su aree più ampie, si concretizzerebbe meglio la terza missione dell’università, che è proprio quella di cambiare il territorio che la circonda, arricchendosi a sua volta delle culture e delle produzioni scientifiche locali.
La Sardegna di dentro si presta allo sviluppo dell’industria creativa, dei nuovi media, oltre che al cinema, al teatro e alla musica. I diversi attori possono concorrere alla definizione di progetti mirati per sostenere festival e produzioni artistiche, con particolare attenzione alla storia locale, fonte inesauribile di ispirazione che può essere reimmessa in circolo anziché folklorizzata in manifestazioni arraffazzonate e cucite sui desideri esotici del turismo di massa.
Senza dilungarmi ulteriormente, dato che ci sarà tutta la sezione pomeridiana, credo fermamente che sia davvero il momento di invertire la domanda che assilla da ormai più di un decennio gli attori politici della Sardegna interiore. Non possiamo più chiederci “come ripopolare i paesi?” limitandoci a costruire una buona programmazione delle risorse o sperando di riprodurre SNAI in ogni territorio. Questi modelli di intervento spoliticizzano la questione, seguendo un’ottica emergenziale al posto di riconoscere la strutturalità di determinate disuguaglianze e ingiustizie. Bisogna dunque chiedersi come attivare le comunità di oggi su degli obiettivi politici chiari, consapevoli di chi sono i nostri avversari e dove si trovano, perché non arriverà nessun salvatore dall’esterno, né tantomeno si assisterà ad un “ritorno” di massa delle generazioni di emigrati né ad una forte immigrazione, se tutto resterà fermo. Il tempo è ora, il posto è questo, gli attori siamo noi. Vivere, lavorare e costruirsi un futuro in Sardegna dev’essere desiderabile, non qualcosa che si fa soltanto per amore o senso di responsabilità.
Sono tanti i temi che bisogna toccare se si ha l’ambizione di costruire un’alternativa per la Sardegna di dentro e, di conseguenza, per la Sardegna tutta. Non li ho volutamente toccati tutti, anche perché credo che occorra interrogarsi pure sul metodo, la strategia e le forme di una nuova politica sempre più necessaria. Conclusasi la spinta autonomistica, con tutti i suoi errori, il mancato “risarcimento” da parte dello Stato, il suo utilizzo retorico da parte di una classe polito-amministrativa dipendente e intermediaria di poteri politico-economici che hanno avuto solo interesse a sfruttare l’isola, esiste la possibilità di aprire una nuova stagione per la democrazia sarda? Esiste la volontà di radicalizzare una democrazia sofferente, costruendo nuove battaglie e costruendo un popolo determinato e speranzoso di poter vivere una Sardegna più giusta e ricca di opportunità?
Va inventata una nuova politica per l’emancipazione dei sardi. La priorità non è tanto comprendere l’obiettivo ultimo della mobilitazione per liberare la Sardegna e i suoi gruppi sociali più deboli dalla subalternità, quanto capire come trasformare la conflittualità latente e il malessere “privatizzato” tra i medicinali o le slot machines in conflitto politico organizzato capace di democratizzare l’isola, di rendere protagonista e dirigente il popolo.
Viviamo il momento del populismo e, a dispetto di chi si arrocca in difesa dello status quo definendolo come un’ideologia, come ci insegnano Laclau e Mouffeesso consiste in una strategia discorsiva che opera attraverso una frontiera politica che divide la società in due campi: chi non ha voce, i subalterni, contro chi è al potere, le élites. Nella congiuntura storica attuale si segnala – ormai da un decennio – una crisi dell’egemonia neoliberale nell’Europa occidentale che aveva sostituito il welfare state keynesiano di stampo socialdemocratico. Con lo scoppio della crisi economica si sono condensate una serie di contraddizioni che hanno aperto un periodo in cui sono stati messi in crisi i cardini simbolici e discorsivi del progetto neoliberale. Basti pensare alle mobilitazioni contro l’austerità che hanno solcato il continente, le mobilitazioni studentesche, quelle contro le riforme del lavoro, quelle ambientaliste contro il mantra della crescita infinita. Il quadro politico si è radicalizzato, le classi medie si sono progressivamente impoverite, sempre più persone percepiscono il sistema politico-economico ingiusto, controllato da élites privilegiate e sorde alle domande sociali. Gli attori politici in grado di rispondere alle domande sociali sempre più pressanti, che provengono dai gruppi sociali maggiormente colpiti dalle distorsioni della globalizzazione, hanno una possibilità di segnare dei risultati. Lo è a maggior ragione la Sardegna, dove si può registrare in aggiunta al malessere sociale e all’impoverimento generale, un conflitto centro-periferico, storicamente apparso in maniera carsica, dovuto alla presenza – seguendo l’elaborazione di Galtung – di tre caratteristiche della relazione delle periferie con il centro: la differenza, la distanza e la dipendenza. Distanza dalla periferia dai luoghi decisionali del potere, differenza etnica e culturale dal centro e dipendenza economica.
Non si può lasciare ad una destra a trazione leghista l’offerta di una risposta alla percezione di essere lasciati indietro e al desiderio di riconoscimento delle proprie istanze. Sarebbe una risposta reazionaria e xenofoba, come ben sappiamo. Se esiste, e credo che esista, una volontà di contare da parte delle popolazioni di quest’isola, essa deve tradursi innanzitutto in una nuova presa di parola plurale delle comunità. Voci in armonia tra loro, come il più bel canto a tenore che si possa immaginare.
L’ultimo risultato elettorale delle regionali ci racconta che ci sono vaste praterie sociali non presidiate e non organizzate che, di fronte a un’alternativa credibile e radicalmente nuova, potrebbero mobilitarsi, ma probabilmente non immediatamente sul piano elettorale. Ed è bene così: la politica non si fa solo sotto elezioni, ma è costruzione paziente di legami, solidarietà e potere dal basso. È, per chi vuole una Sardegna democratizzata, giusta e con meno disuguaglianze, innanzitutto una costruzione della società laddove oggi prevalgono il risentimento, la paura e l’individualismo, ingredienti essenziali per l’affermarsi dei populismi di destra.
Se all’ultima tornata soprattutto nei paesi si è data una fiducia così alta a un centrodestra a trazione Lega Nord, è perché siamo in una condizione di democrazia “a bassa intensità”, dove il voto d’opinione si sposta soltanto attraverso le urla delle tv, esercitata nella maggior parte del territorio soltanto in vista delle scadenze elettorali;ma pure perché il campo avverso, nelle sue varie declinazioni, ha ascoltato più i centri delle città che le istanze delle tante periferie, più i pareri in chiave ragionieristica che le voci dei bisogni materiali delle persone.
Serve una nuova politica all’altezza della sfida, che coniughi una visione radicalmente nuova al possesso di una macchina da guerra comunicativa, di una legittimità sui territori attraverso il governo locale con un protagonismo costante sulle iniziative sociali, mutualistiche, solidali. Vanno messe in connessione competenze fresche al servizio di progetti da realizzare qui e subito, che facciano del bene, che restituiscano una fiducia nell’impegno politico.
Io credo che non ci siano soluzioni individuali, né geni o salvatori all’orizzonte. Ho tanta fiducia nelle generazioni di cui faccio parte. Siamo i figli della crisi e per la maggior parte di noi le aspettative si sono notevolmente abbassate, quantomeno rispetto a quelle delle generazioni precedenti. Siamo cresciuti vedendo il declino delle nostre comunità, le casseintegrazioni, il proliferare delle forme del malessere, il crollo dei settori economici principali e dei servizi. Siamo cresciuti in un’emergenza che si è fatta narrazione quotidiana, a reti unificate, a bar unificati. Un’emergenza che è diventata una scusa per ripeterci esclusivamente che non possiamo farcela, che siamo pocos, locos y mal unidos, che la Sardegna è una terra morta, senza alcuna possibilità di trovare una via per la felicità. E di fronte a tutto questo, alla rassegnazione, ad ambienti sociali sempre più poveri di stimoli e opportunità, molti di noi sono fuggiti, tanti altri si sono adattati.
Inizieremo a scrivere un nuovo pezzo di storia di questa isola quando, soprattutto noi giovani della Sardegna di dentro che subiamo un’ulteriore periferizzazione sostanziale e percepita, inizieremo a urlare a gran voce che non vogliamo trovare un posto in questa Sardegna, ma creare una Sardegna in cui valga la pena trovare un posto; quando smetteremo di percepire la nostra condizione tra precarietà ed emigrazione come una sfiga da risolverci da soli, ma come un effetto di politiche ingiuste ai danni della nostra isola e delle nostre generazioni, alle quali bisogna rispondere con coraggio e determinazione; quando non avremo paura di non bussare le porte “giuste” per ottenere qualcosa, decidendo finalmente di entrarci a forza e riprenderci tutto ciò che ci è negato.
Gramsci ci dice che è possibile rompere la subalternità e procedere verso l’autonomia integrale, ovvero la piena emancipazione storico-politica-culturale. Lo è anche per chi anima questa isola, per di chi produce, chi studia, chi si prende cura delle persone, delle risorse, dei territori. Sarà per noifinalmente il dispiegamento della nostra presenza in questo mondo, non più scissa ma finalmente ricomposta, felici della nostra differenza orgogliosamente sardo-globale e aperta a tutte le differenze di questo mondo.
Bando alla paura, al cinismo, alla rassegnazione: non ha senso viversi questa terra con passioni tristi!
Come diceva Pino Ferraris, bisogna essere «figli inattuali del proprio tempo», tenendo la testa fuori da un presente «ingloba», che «soffoca, che è come una vischiosa palude di persistenza». Bisogna attivare due facoltà essenziali: la memoria e l’immaginazione, che permettono di uscire dal presente e prenderlo a calci. In caso contrario il presente ingloba. Essere inglobati dal presente significa essere bloccati nell’esistente e quindi ogni idea di emancipazione e di liberazione viene persa. Questo è il nesso tra passato e futuro, tra ieri e domani. Questo è il nesso tra la storia sarda, quella delle rivolte contadine e pastorali, delle mobilitazioni operaie, studentesche e antimilitariste, quella di Angioy, Gramsci, Lussue di tanti altri figli di quest’isola che si sono ribellati e noi, futuro che agisce nel presente.
Armungia, 28 settembre 2019.