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Diritti costituzionali sotto sequestro - Cristina Deidda
Il tema che viene dibattuto oggi è di quelli “importanti”, che stimolano le coscienze civili, fondamentale come “fondamentale” è la Costituzione della Repubblica Italiana, oggi, a 70 anni dalla sua promulgazione. Era infatti il 1° gennaio 1948, e bisognava per dare un assetto civile, politico, economico e sociale al nostro Paese; si doveva ripartire, si doveva ricostruire, si doveva rigenerare la coscienza di ogni cittadino italiano, provato da anni di lutti e miserie, e gli uomini e le donne dell’Assemblea Costituente riunirono in questo testo i “valori” capisaldi dei vari ambiti della vita sociale.
La sua attualità, il suo intatto valore etico, la sua validità nell’orientare i comportamenti rispetto alla libertà, all’uguaglianza, alla tutela per l’ambiente, alla scuola, alla valorizzazione della scienza e delle arti; costituisce un concetto di politica ispirato ai valori dell’onestà e della competenza, che sia servizio verso i cittadini e non esercizio oppressivo di potere.
L’articolo 2 dichiara che “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Intendendo l’universalità del valore uomo, non connotato come cittadino italiano. E’ la persona in quanto tale portatrice di diritti inviolabili che devono essere garantiti dalla Repubblica.
L’articolo 3 sancisce il principio di uguaglianza formale e sostanziale, vietando l’introduzione di qualsiasi elemento di distinzione arbitraria riferibile alla persona rispetto alla fruizione di servizi pubblici a vocazione universalistica (es. sentenza della Corte Costituzionale 107/2018 relativa al requisito di protratta residenza per accedere agli asili nido introdotto dalla normativa della Regione Veneto volta ad escludere i cittadini stranieri).
La rimozione delle cause di diseguaglianza è condizione necessaria per rendere tutti i cittadini uguali nella loro capacità/facoltà di agire secondo le libertà fondamentali riconosciute dalla costituzione.
Recita l’articolo 13: “La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, d’ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”.
La bella locandina dell’evento odierno reca un’immagine, che è purtroppo l’emblema dei giorni che stiamo vivendo: la nave della Guardia Costiera italiana “Diciotti”, che per dieci giorni (!) ha trattenuto al suo interno 177 migranti, tra cui donne e minori, in condizioni igieniche devastanti, “per ordine di un Ministro della Repubblica italiana”, quella stessa Repubblica che – giova ricordarlo ancora una volta – “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”. Il trattenimento a bordo contro la loro volontà di quelle donne, di quegli uomini, di quei minori (che solo in un secondo tempo sono stati fatti sbarcare) è stata una decisione contraria ai principi costituzionali.
Nessun membro appartenente al potere esecutivo, dunque, può limitare la libertà personale di un individuo: tale prerogativa compete solo ed esclusivamente all’autorità giudiziaria con un provvedimento motivato e solo “nei casi e modi previsti dalla legge”. Ciò che è accaduto è una pericolosa deriva autoritaria che erode i principi democratici, e mette in pericolo lo Stato di diritto.
E’ fondamentale che la politica non prevalga sul diritto.
La forza espansiva del concetto stesso di “diritto” viene meno – secondo la logica che “la legge è uguale per tutti, ma per alcuni è un po’ meno uguale che per altri” – laddove interpretazioni distorte, populiste e xenofobe dei principi fondamentali alla base del nostro sistema giuridico vengano fatte prevalere “nel nome di quel popolo italiano” che alle ultime elezioni ha consegnato la vittoria allo schieramento di turno.
Il vero rischio che si corre, oltre all’assuefazione delle coscienze nell’ascoltare distrattamente la notizia del migrante sconosciuto privato anche dei diritti basilari che spettano ad ogni individuo, è quello della trasformazione della funzione insita nella detenzione amministrativa in “strumento propagandistico per infondere sicurezza nei cittadini”.
L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. Articolo 1 della Costituzione
L’articolo 4 “riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Fondamento della Repubblica, e da essa tutelato, è il lavoro come elemento egualitario di sviluppo della persona nella sua interezza e come contributo alla collettività, come diritto/dovere del cittadino di svolgere un ruolo attivo nel sistema delle relazioni economiche e sociali.
Al diritto al lavoro si affiancano altre articolazioni istituzionali che la Repubblica tutela: il diritto alla salute (art.32), a garanzia dell’individuo in quanto tale e come interesse della collettività, il diritto all’istruzione (art.34): “la scuola è aperta a tutti.
L’istruzione inferiore (…) è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi, ed in tal senso è lo “Stato che crea le pari opportunità per tutti, mettendo i cittadini in condizione di competere tra loro in modo paritario”; e la volontà di costruzione dello Stato sociale porta al contrasto con la logica liberista, ossia: “la scuola deve essere pubblica, la sanità deve essere pubblica, l’acqua e i generi indispensabili, compresi i servizi di interesse strategico nazionale non possono essere privatizzati”.
L’articolo 35 parla di “tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni” e di “cura della formazione e della elevazione professionale dei lavoratori”, il 98 statuisce che “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione” e l’articolo 97, stabilisce che “Le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico. I pubblici uffici sono organizzati (…) in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”.
Si tratta degli ultimi tre passaggi della mia relazione.
Non bisogna dimenticare che gran parte dello sviluppo e della crescita del nostro Paese è stato innescato dall’investitore pubblico: oggi le imprese italiane si trovano a competere in mercati globalizzati con multinazionali dotate di enormi capitalizzazioni.
Non c’è un’adeguata visione da parte dello Stato volta a supportare e stimolare le imprese, e non si può ritenere sufficiente qualche debole iniziativa come il super ammortamento e i programmi Industria 4.0 Impresa 4.0, cosa invece accaduta in Germania, dove la strategia nazionale Industria 4.0 è stata accompagnata da un piano Lavoro 4.0.
E’ necessario ripensare il nostro modello di sviluppo, ricercando una nuova collaborazione tra Stato e imprese, che sia capace di sollecitare una concorrenza leale e regolata e di salvaguardare le tutele e i diritti di uno Stato sociale moderno che ricostruisca le comunità e consenta di superare la solitudine degli esclusi.
Credo sia necessario riaprire un forte confronto pubblico con i sindacati dei lavoratori e rappresentanti delle imprese per costruire questo percorso con la necessaria partecipazione e il più vasto consenso, poiché solo da un confronto maturo sarà possibile progettare un percorso per una crescita dell’occupazione di qualità, che porti ad un’organizzazione del lavoro moderna e rispettosa dei diritti e puntuale nella individuazione dei doveri, in una logica di partecipazione attiva delle parti in causa per la crescita del sistema cui, a titolo diverso, contribuiscono.
Bisogna realizzare una strutturata opposizione al dumping salariale ed ai “contratti pirata” in tutti quei settori (call center, facchinaggio, pulizie, ecc.) in cui continuano ad essere stipulati contratti che danneggiano sia i lavoratori, sia le imprese che rispettano leggi e contratti.
Si devono determinare standard universali di tutele e retribuzioni per via contrattuale e legislativa, al fine di evitare la competizione al ribasso sia per il lavoro dipendente che per quello autonomo.
Occorre infine valorizzare forme di impegno sociale di “partecipazione qualificata”: di fronte ai grandi poteri economici e finanziari le forze riformiste sono assenti perché non sono organizzate.
La storia degli ultimi decenni, partendo dalla seconda metà degli anni novanta, ha inequivocabilmente dimostrato come le riforme del mercato del lavoro non siano state in grado di incidere sugli aspetti strutturali del sistema produttivo del Paese, né di migliorare i livelli occupazionali. La teoria, cui hanno aderito anche esponenti del centrosinistra, secondo cui la liberalizzazione del mercato del lavoro, che poi si traduce nella riduzione del sistema dei diritti e delle tutele dei lavoratori, avrebbe prodotto un significativo sviluppo economico e, pertanto, occupazione, è, nei fatti, fallita.
L’assenza, in Italia, di una strategia integrata che coniugasse in maniera strutturata e strutturale politica economica, politica industriale e politiche del lavoro, uno degli errori del Jobs Act, ha fatto sì che l’impalcatura della riforma, accompagnata da sgravi contributivi a tempo e senza alcuna concreta integrazione sul piano delle politiche industriali, unitamente all’ampliamento dei soggetti esclusi dalle tutele legate ai cosiddetti ammortizzatori sociali e la riduzione della durata degli stessi in una situazione di persistente crisi economica, abbia determinato un grave vulnus per milioni di lavoratori e per i giovani, per i quali troppo spesso flessibilità si traduce in precarietà del lavoro.
Altra questione sulla quale non si può non intervenire è quella della Gig Economy, per la quale va previsto un intervento di regolazione contrattuale e legislativa che tenga conto oltre al salario minimo, anche delle tutele di base: previdenza, malattia, assicurazione contro gli infortuni.
Pensiamo ai riders, un nuovo proletariato di età variabile (tra i 20 e i 40 anni) formato da studenti, disoccupati, esodati o stranieri, lottano su un mezzo a due ruote con il traffico, le buche, l’asfalto delle città.
Sottopagati, sfruttati, lavoranti a cottimo, si pagano da soli la benzina, la manutenzione del mezzo, sobbarcandosi persino il rischio di perdere o danneggiare la merce in cambio di una retribuzione oraria (4 o 5 euro l’ora) o di pochi euro a consegna, e se a fine mese non si raggiunge una soglia minima di consegne, la “paga” slitta al mese successivo. Il turn over è la regola per questi lavoratori autonomi della gig economy, il cui giro d’affari (per le aziende del mercato) si aggira intorno ai due miliardi di euro .
Questo contrasto stridente tra chi si arricchisce sulle spalle di lavoratori sfruttati e i lavoratori medesimi ha portato ad azioni di rivendicazione e di protesta per il miglioramento dello status di subordinati. Le proteste sono incominciate nell’inverno del 2016 a Torino.
I riders che – a seguito delle proteste – vengono licenziati ricorrono in tribunale, e la sentenza che viene emessa non riconosce loro lo status di lavoratore dipendente. Sentenza sulla quale non possono non esprimersi forti perplessità in quanto questi lavoratori, che certamente possono decidere se entrare o meno nella piattaforma logistica, una volta entrati sono legati ad un meccanismo digitale che regola tempi e metodi dello svolgimento del lavoro, in modo rigidamente determinato.
“C’è un grande bisogno di pensiero” , ma le buone idee camminano sulle gambe degli uomini e si propagano e si trasformano in intese ed azioni.
Di fronte ad un substrato sociale ed economico così in fermento, lo studio dei nuovi modelli di diritto del lavoro deve andare di pari passo, cogliere i segnali di mutamento e trasfonderli nelle direttrici da intraprendere per il futuro.
Formazione e open innovation diventano sempre più necessari in un contesto socio-economico caratterizzato dalla previsione che nel corso di pochi anni vi saranno forti sviluppi verso lavori che oggi non esistono.
Secondo l’Isfol è proprio la scarsa propensione delle imprese a fare formazione e ricerca, la causa di grande fragilità del nostro sistema, non rendendosi così competitive sia a livello nazionale, che europeo.
Da ultimo, un passaggio sul ruolo della Pubblica Amministrazione e da quanto statuito dall’articolo 51 della Costituzione in ordine all’accesso da parte dei cittadini agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza.
Il funzionario pubblico è al servizio della Repubblica, in tal senso tutelato da specifica normativa, ma al funzionario pubblico è richiesta un’assunzione di responsabilità nei confronti della collettività e una preparazione qualificata (artt. 98 e 97), in quanto deve operare per quel sistema pubblico che deve garantire la tutela di quei diritti fondamentali volti ad assicurare l’universalità dei diritti che contribuiscono alla realizzazione del bene collettivo.
La preoccupante deriva volta alla demonizzazione dei dipendenti pubblici, “i fannulloni”, epiteto genericamente rivolto ad una intera categoria di lavoratori, la volontà neppure troppo celata di creare una spaccatura sociale accanendosi contro alcuni, il nemico di turno, in maniera strumentale, senza una puntuale analisi di condizioni e contesti, ma portata avanti per screditare una categoria, quella che rappresenta il primo agente di garanzia di eguaglianza e democrazia, è un ulteriore inquietante elemento che impone attenzione in ordine agli strumenti che in vario modo, fuori da contesti di analisi e in maniera pretestuosa, semplicistica e pericolosamente insidiosa tendono a minare le basi del sistema democratico.
E concludo queste mie riflessioni citando alcuni stralci dei lavori dell’Assemblea Costituente:
“Noi pensiamo che la democrazia si difende, che la libertà si difende non diminuendo i poteri dello Stato, non cercando di impedire o ostacolare l’attività dei poteri dello Stato, ma al contrario, facendo partecipare tutti i cittadini alla vita dello Stato, inserendo tutti i cittadini nella vita dello stato”.
Noi ci avviamo, ci vogliamo avviare, verso forme di democrazia più ampie e concrete.
(…) Non dobbiamo cercare i motivi che ci dividono, ma quelli che ci uniscono, per un bene che ci è comune.”
Cagliari, 25 ottobre 2018