Sinistra Autonomia FederalismoRipartiamo dalle idee e dai territori
Orientamenti
La rete politica «Sinistra autonomia federalismo» nasce dalla necessità di riaprire in seno alla variegata galassia delle forze progressiste la discussione su temi oggi centrali per la difesa e l’ulteriore affermazione della democrazia, della giustizia, dei diritti civili e sociali e dell’eguaglianza di genere. Questa esigenza ècertamente in rapporto con l’attuale quadro nazionale, segnato dalla prevalenza di soggetti politici che, al di là della diversa connotazione sovranista o populista, mirano a infirmare le principali conquiste sociali, civili e costituzionali della democrazia italiana ed europea. Ma scaturisce anche dall’involuzione pressoché generale sulla scala mondiale della tendenza che, pur duramente contrastata, appariva irreversibile all’affermazione di valori fondamentali quali la salvaguardia dell’ambiente, la convivenza pacifica, il rispetto dei diritti umani, la libertà di fede e di opinione, la solidarietà sociale, il controllo democratico dell’esercizio del potere economico e politico.
Tutto questo appare oggi sotto attacco.
È sotto attacco la costruzione europea, che attraverso le sue diverse fasi (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, Comunità Economica Europea, Unione Europea) sembrava avviata a superare la prevalente impronta economica che ne rappresentava la prima ragione d’origine e al contempo il maggior limite, per giungere con un progressivo rafforzamento politico a un approdo anche costituzionale, quale prefigurava la Dichiarazione di Laeken del 2001. Non è stato così, prima per lo sbilancio interno di poteri che costituiva la Germania in principale polo decisionale, poi per l’unificazione monetaria realizzata in assenza di istituzioni atte a compensare e regolare divergenze esquilibri tra i diversi Paesi, poi per il difficile amalgama civile e culturale con i Paesi già comunisti (accolti nell’Unione nel 2004), poi ancora per l’intransigenza manifesta nei confronti della Grecia, messa sotto tutela e forzata a una politica di risanamento del debito pubblico basata su una stolida politica di austerità e infine per l’incapacità (e sostanziale non-volontà) di dare una risposta unitaria al problema dell’immigrazione extra-comunitaria. A erodere ulteriormente l’ancora debole coesione politica dell’Unione europea sono infine venuti il distacco della Gran Bretagna, spiegabile soltanto con le pulsioni anti-sociali di una destra conservatrice, e le manifestazioni xenofobe, scioviniste e illiberali di Viktor Orbán in Ungheria e di «Diritto e giustizia», il partito al governo in Polonia.
L’Unione europea vive così il momento più difficile della sua storia, ma è sbagliato e dannoso disconoscere il ruolo fondamentale che ha svolto nella preservazione della pace, nell’affermazione dei diritti di cittadinanza e nella costruzione di un’identità europea permeata di valori umanistici e solidali. Conquiste che fan sì che la costruzione europea non abbia alternative, se non negative, perché se quest’Europa in faticosa costruzione cede agli egoismi nazionali e alle spinte centrifughe, neppure lapax occidentalis sarà un fatto acquisito. Tanto meno da quando un presidente americano espresso da una destra ultra-conservatrice e illiberale le va lanciando una dura sfida anche sul terreno economico
Il problema maggiore per il futuro dell’Unione europea èancora soprattutto d’ordine politico e costituzionale, perché quella che al momento è soltanto una «associazione di Stati» (definizionedella Corte costituzionale tedesca) deve portare a termine il suo lungo processo costituente per trasformarsi in una Federazione di Stati, colmando l’attuale deficit di democrazia con un’effettiva articolazione verticale dei poteri tra i diversi soggetti politici che la costituiscono, Stati, Regioni e Città-metropoli. È questa l’unica via per dar corpo a una cittadinanza europea fondata sull’affermazione dei diritti sociali (lavoro, istruzione, salute, assistenza), oltre che dei diritti civili.
Il futuro dell’Unione europea dipende, a nostro avviso, dalla valorizzazione delle conquiste già realizzate e che hanno cominciatoa creare i contenuti del sentirsi cittadino europeo: la libera circolazione delle persone, le esperienze di integrazione formativa e culturale (quale il progetto Erasmus), alcuni meccanismi di redistribuzione delle risorse comunitarie. Prendendo però anche atto dei limiti ed errori sinora emersi: per scelte di politica economica basate su rigidi parametri liberisti che hanno ostacolato i processi di integrazione e aggravato le diseguaglianze fra i Paesi, per l’assenza di una politica di bilancio comunitaria volta a favorire la crescita stimolando gli investimenti produttivi, l’occupazione, la ricerca e l’innovazione,e per l’attribuzionealle istituzioni europee di poteri limitati. Il Parlamento europeo è l’unico nel mondo democratico a non avere poteri legislativi e di controllo, impropriamente esercitati dal Consiglio dei ministri degli Stati aderenti, che tende a esautorare la stessa Commissione europea. Solo l’attribuzione di maggiori poteri al Parlamento può consentire di superare la crisi dell’Unione indirizzandone la costruzione in senso federale.
Siamo ben consapevoli che il conseguimento di tale obiettivo non è né vicino né scontato, per la molteplicità e complessità dei fattori in gioco, ma non per questo il federalismo cessa di essere per l’Europa quell’orizzonte di valore democratico e civile che fu genialmente prospettato da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi nel Manifesto di Ventotene.
È sotto attacco la Costituzione italiana, per la presunzione di un governo a tendenza nazionalista e populista che ambisce a porsi come esponente unico della sovranità popolare, mettendo in discussione la divisione dei poteri, e con essa il ruolo di garante assegnato al Presidente della Repubblica e l’autonomia del potere giudiziario (con il suo corollario dell’indipendenza della magistratura).
Per scardinare l’impianto essenziale della Costituzione del 1948 si utilizza come grimaldello il ricorso alla legittimazione che al governo verrebbe dal voto popolare, cui la Costituzione riconosce però soltanto il potere di eleggere la rappresentanza parlamentare e non certoquello di mettere in discussione la divisione dei poteri e tanto meno diritrattare quel riconoscimento dei diritti e dei doveri dell’uomo, a prescindere dai connotati etnici, religiosi, culturali e sessuali, che essa ha incorporato in sé. Con la Costituzione, inevitabilmente, si mettono in discussione anche lo stato di diritto e il principio di legalità, magari evocando le ragioni superiori di un’etica e di valori la cui interpretazione è poi lasciata interamente al titolare del potere esecutivo.
L’esito ultimo dell’attacco alla Costituzione – ma non scordiamoche altrisono venuti dai precedenti governi, in particolare dal penultimo – vorrebbe essere la sua riduzione a strumento fungibile della maggioranza al governo, perché ne possa fare – come già avviene per la legge elettorale – un uso tutto strumentale per il rafforzamento e conservazione del suo potere.
Questo non significa che la Costituzione non possa essere soggetta a revisione, che anzi auspichiamo per la riforma in senso federale della Repubblica, ma senza metterne in discussione l’unità e i principi ispiratori.
È sotto attacco anche l’autonomia sarda, i cui profili di specialità sono oscurati all’esterno da una ripresa del centralismo statale e all’interno dall’accentuarsi del ruolo dirigistico dell’istituto regionale, che sfibra e svuota le autonomie locali. In questa seconda direzione ha di recente operato la legge regionale sul «Riordino del sistema delle autonomie locali della Sardegna», che in coerenza con la riforma del Titolo V della Costituzione avrebbe dovuto conferire nuovo vigore al principio di sussidiarietà e ha viceversa disegnato con piglio centralistico, senzainterrogare le autonomie locali, una riorganizzazione del governo territoriale che accentualo squilibrio fra i territori.
A fronte di un ulteriore potenziamento con la Città metropolitana dell’area cagliaritana, l’unica in Sardegna a conservare un importante tessuto industriale e detentrice con il capoluogo delle principali funzioni politiche e direttive, il restante territorio regionale è ancora privo da sei anni di rappresentanza politica e retto da commissari. La formazione delle Unioni dei Comuni, ubbidendo a parametri quantitativi e non sostanziali (e cioè storici, culturali ed economici), non è in grado di conferire al territorio adeguate nervature (e soggettività) politiche. Per non dire del monstruumdella provincia del Sud Sardegna, semplicisticamente ricavata sottraendo a tavolino l’area metropolitana di Cagliari dalle precedenti province di Cagliari, Medio Campidano e Carbonia-Iglesias. Invece di affrontare la riforma degli enti intermedi partendo dalle funzioni esercitate si è voluto sopprimerle, per poi accorgersi che non si sapeva a chi attribuire quelle funzioni.
Il governo del territorio va ripensato nell’ottica del federalismo interno, la quale comporta che la Regione qualifichi maggiormente il proprio ruolo sul terreno dell’attività legislativa, dell’elaborazione strategica e della supervisione degli enti locali, lasciando a questi l’attuazione e gestione degli interventi. Un passo incidente verso la costruzione di una Regione policentrica può essere rappresentato dal decentramento di enti e strutture operative.
Sul versante esterno al centralismo, che ha ripreso vigore dopo il fallimento nello scorcio finale del Novecento del progetto di una riforma dello Stato in senso federale, non si può rispondere né con battaglie di corto respiro, aprendo questo o quel tavolo di trattativa su un contenzioso sempre frammentato, né con la sfida del separatismo, neppure di quello che si è riqualificato come «sovranismo» o «autodeterminazione». Per chi, come noi, si propone di rilanciare i temi dell’autonomia e del federalismo sul solco della grande tradizione federalista italiana ed europea, e facendo anche tesoro dell’eredità del federalismo sardo (da Giovanni Battista Tuveri a Emilio Lussu, Sebastiano Dessanay e Umberto Cardia, la prospettiva di uno Stato sardo indipendente è fuori orizzonte. Come riteneva peraltro lo stesso Antonello Satta, uno dei più eminenti protagonisti del movimento per l’identità nel secolo scorso, attestato su posizioni federaliste, che contestava al «separatismo isolazionista» di essere rimasto fermo a una «concezione ottocentesca della nazione-stato», inconsapevole della «crisi dei grandi sistemi economici, dei grandi sistemi ideologici, delle grandi unità statali».
Il federalismo sta, invece, tutto dentro la nostra storia e dobbiamoriproporlo come obiettivo politico fondamentale nel quadro sia italiano che europeo.
Nel caso sardo il compito più immediato in questa prospettiva è di valutare – a partire dall’eventuale ridefinizione della specialità dello Statuto(consentita in teoria dalla riforma del Tit. V della Costituzione) – la fattibilità di un suo potenziamento, o altrimenti della messa in atto di iniziative politiche di segno autonomistico, partecipate dalla popolazione, capaci di portare il confronto con lo Stato sino a quel limite oltre il quale apparirà necessaria la ridefinizione in senso federale del suo ordinamento.
La possibilità di riforme importanti dello Statuto sardo vanno valutate sul piano della praticabilità e su quello dei contenuti. Poiché la specialità presenta profili differenziati nelle regioni che ne beneficiano e dato il clima politico avverso nei loro confronti, viene difficile pensare a una maggioranza parlamentare propizia ad ampliarne le competenze. La questione dei contenuti, e cioè del rafforzamento e ampliamento dei poteri regionali, e non solo della Sardegna, rinvianuovamentealla riforma dello Stato in senso federale. La trasformazione del Senato in Camera delle Regioni, con poteri legislativi nelle materie d’interesse regionale, può essere un primo e concreto passo in tale direzione. Il ruolo e il potere delle autonomie regionali, e in primis di quelle fondate su motivazioni storiche e identitarie sostanziali, devono pesare là dove si assumono le decisioni fondamentali, statali e comunitarie, e non solo nelle periferie.
Le iniziative di riscrittura per via legislativa dello Statuto sardo non sono sinora andate a buon fine, perché sia la «Legge statutaria», promulgata nel 2008 della Giunta Soru, sia la «Consulta per la sovranità del popolo sardo», istituita nel 2006sempre con legge regionale, sono state rigettate dalla Corte costituzionale.Ma la strada della riforma dello Statuto per via legislativa è resa oggi anche più impervia dall’orientamento nazionalista del governo italiano e dalle tensioni cui l’Unione europea è sottoposta dalle pulsioni centrifughe, a partire da quella del governo italiano Lega-Cinque Stelle.
A queste tensioni centrifughe può essere sottoposta anche l’Italia se si dà corso a quell’autonomia differenziata che la Lega vorrebbe attribuire alle regioni del Nord, a partire dalla Lombardia e dal Veneto, che l’hanno richiesta con referendum consultivi del 22 ottobre 2017 (in Lombardia vi ha partecipato solo un terzo degli elettori). L’obiettivo di queste rivendicazioni riguarda innanzitutto la distribuzione del gettito fiscale: si vorrebbe che ogni Regione si valesse del solo gettito fiscale del proprio territorio, salvo un modesto trasferimento dai più ai meno ricchi a titolo perequativo. Un risultato, proprio di un federalismo competitivo e non cooperativo e solidale, tale da minare la parità universale di accesso dei cittadini a diritti fondamentali quali quelli dell’istruzione e della salute.Si tratta, di fatto, dell’ennesimo tentativo leghista, a dispetto dell’ora conclamato nazionalismo italiano, di rompere la faticosa (e mai compiuta) solidarietà territoriale italiana conferendo a quelle regioni una gamma di competenze (compresi i rapporti internazionali) che in assenza di un credibile progetto federalista - che metta tutte le regioni sullo stesso piano - rappresenta un grave attentato alla coesione politica e civiledel nostro Paese e di riflesso dell’Unione europea. «A quale titolo – si è chiesto Sabino Cassese –possiamo chiedere solidarietà e politiche di coesione ad altri Paesi europei, se alcune regioni italiane non l’assicurano ad altre regioni della nostra stessa nazione?».
Ed è ben singolare (e incomprensibile nella prospettiva della tradizione autonomista sarda e sardista) che il P.S.d’A, alleandosi con la Lega, si sia allineato a una politica che alla Sardegna può fare soltanto del male.
Se la nuova «carta autonomistica e federalista dei sardi» difficilmente potrà essere il risultato, in tempi congrui, di una iniziativa legislativa, essa potrà invece scaturire sostantivamente, e cioè come prodotto in divenire, parte dell’attività di confronto e negoziazione politica della Regione con lo Stato, parte da momenti di mobilitazione sociale e territoriale. Soltanto per questa via sarà anche possibile raccogliere in un progetto d’assieme e unitario l’intera e sinora frammentata materia del contenzioso della Regione (e del popolo sardo) con lo Stato: l’adeguazione del sistema scolastico regionale alle esigenze dei territori e dello specifico linguistico, etnico e storico delle popolazioni; la continuità territoriale; il riconoscimento in sede europea (già concessoalle isole atlantiche) di compensazioni per via fiscale degli svantaggi strutturali dell’insularità; il federalismo fiscale, in chiave solidale e non egoistica nel quadro nazionale e con specifica attenzione alle esigenze dei territori nel quadro locale; la preservazione dei valori naturalistici e paesaggistici; la riduzione sostanziale dell’ipoteca militare sull’isola.
Sotto il profilo progettuale si può andare anche oltre. La pesante sconfitta del neocentralismo nel referendum costituzionale del 2016 ha infatti creato le condizioni per riproporre il progetto federalista con disegno di legge costituzionale, da elaborare con i territori e da presentare con iniziativa popolare. Una prospettiva irrealistica? No, non almeno per chi ritiene che sia comunque necessario tracciarsi un orizzonte ideale e politico, che può diventare realistico con il massimo impegno su due fronti: la chiamata in causa delle autonomie locali come principale soggetto e protagonista della riforma su base federale dell’autonomia sarda e la costruzione e diffusione a ogni livello sociale di una cultura autonomistica ricca di consapevolezze storiche e sostanziata di valori civili e umanistici.
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Il nuovo governo regionale si troverà di fronte due problemi centrali, distinti ma largamenteinterconnessi: la disoccupazione e sottoccupazione di massa, soprattutto giovanile, e lo spopolamento, e cioè lo svuotamento di abitanti, attività e vita nella vasta area interna.
Quello dello spopolamento è un problema che l’isola conosce da tempo, ma che si è aggravato a partire dall’abbandono, negli anni sessanta e settanta del secolo scorso, delle pratiche agricole tradizionali, causa di una forte emigrazione, cui nei decenni successivi ha fatto seguito la cosiddetta «transizione demografica», che con la riduzione del tasso di nuzialità e di natalità ha modificato profondamente la composizione generazionale della popolazione, con un continuo e inarrestabile accrescimento della sua componente più anziana.
Ai fenomeni della deruralizzazione e dell’invecchiamento della popolazione si è ancora aggiunta la deindustrializzazione, con la dismissione di quel polo chimico e tessile di Ottana che aveva suscitato molte e non infondate aspettative di sviluppo in tutta la Sardegna interna. Ne sono derivati un indebolimento del presidio umano del territorio e l’alterazione della coesione sociale e morale delle comunità rurali, che la pubblica amministrazione ha quindi inconsultamente provveduto ad accelerare, privando i centri più fragili di servizi essenziali. Lo Stato e la Regione hanno insomma cooperato con la globalizzazione nel minare i sistemi sociali e culturali locali.
Se lo spopolamento non porterà, come prevedono diversi analisti, alla “morte” di molti centri minori, produrràcomunque disagio di vita, depauperamento culturale e degrado ambientale, per cui va contrastato e posto nel cuore delle politiche di sviluppo locale e regionale.
L’inversione del trend demografico è stato posto come obiettivo strategico dall’Accordo di partenariato 2014-2020 adottato dalla Commissione europea, cui in Italiaè seguito nel 2014 il varo di una «Strategia Nazionale per le Aree interne (SNAI), imperniata su politiche di sviluppo da concordare con le istituzioni locali e da attuare con lo strumento dell’Investimento Territoriale Integrato. Questa strategia è stata estesa in via generalizzata alla programmazione territoriale;fatto sta, però, che a quattro anni dal suo varo soltanto 9 delle 23 aree prescelte per la sperimentazione hanno un programma definitivamente approvato, firmato e operativo, e tra esse nessuna delle due previste per la Sardegna, e così pure la programmazione territoriale è appena entrata nella fase operativa vera e propria.
Gran parte di responsabilità della sostanziale inefficacia della SNAI grava sulla pubblica amministrazione statale e regionale,che specialmente in Sardegna si è ancora una volta mostrata – come in molti degli interventi messi in atto negli ultimi vent’anni nel quadro della Programmazione negoziata dello sviluppo territoriale – lenta e inadeguata ai tempi dei cittadini e delle imprese e lontana dai territori.
È una controprova che rende più che mai attuale e urgente la riforma dell’amministrazione regionale, evocata di frequente ma sempre elusa. L’unico provvedimento di razionalizzazione organizzativa della Regione è stata infatti sinora la Legge regionale n. 1 del 7 gennaio 1977, che ha riguardato soltanto gli assetti centrali del governo regionale – Presidenza, Giunta e Assessorati – senza ricadute significative sull’efficienza degli apparati.
Un altro limite delle politiche di sviluppo locale messe in atto nel quadro della Programmazione negoziata è la frammentarietà, la carenza di una visione strategica. Un limite cui si può ovviare soltanto con la elaborazione di una nuova strategia di piano per la Sardegna interna sulla memoria, se non proprio sul modello, di quella che aveva ispirato il Piano di Rinascita (1962), il Polo di Ottana (1969) e la riforma agropastorale. Avendo cioè ben presente che una credibile prospettiva di Piano per la Sardegna interna deve coinvolgere l’insieme dei fattori materiali e immateriali dello sviluppo: agricoltura e allevamento, industria e artigianato, istruzione e cultura, ambiente e infrastrutture, continuità territoriale e fiscalità agevolata.
Ciò premesso, non ci esimiamo dal segnalare alcuni ambiti prioritari e imprescindibili in una strategia di piano applicabile alla Sardegna interna.
Il primo è quello della formazione culturale e professionale, decisivo certo per l’intera Sardegna, ma che nel caso del suo territorio interno assume un’urgenza ulteriore. Formazione significa anzitutto istruzione primaria e secondaria facilmente accessibile, per cui va messa al centro del piano una distribuzione adeguata nella Sardegna non urbana di scuole di ogni ordine e grado, senza subordinarla a una gretta politica della lesina perché l’impegno della Repubblica a fornire istruzione a tutti i cittadini, rimuovendo ogni ostacolo di carattere economico e sociale, è garantito dalla Costituzione. Il programma Iscol@, varato dall’ultimo governo regionale di centro–sinistra, è un primo significativo passo in tale direzione.
Ma i territori devono essere anche maggiormente “avvicinati” all’istruzione più qualificata, quella universitaria, preclusa a molti giovani, oltre che dal basso reddito familiare, dalla distanza delle Università di Cagliari e Sassari. La storia dei corsi universitari allocati a Nuoro, Iglesias e Oristano sinora non è stata in verità esaltante, ma ha comunque fornito esperienze e utili indicazioni per il futuro: qual è, ad esempio, quella di pretendere dai due Atenei sardi il decentramento dei corsi meglio rispondenti alle vocazioni e caratteristiche dei territori, attribuendo loro compiutezza di percorso (3+2) eprofili di unicità e specificità che li rendano attrattivi per l’intero territorio regionale.Intanto è importante che siano state assegnatenuove e cospicue risorse regionali al diritto allo studio, sì che attualmente possono essere soddisfatte, diversamente dal passato, tutte le domande di sostegno finanziario.
Un discorso in parte analogo va fatto per quelle istituzioni di cultura (musei, biblioteche, archivi, etc.) che possono costituirsi in poli territoriali di ricerca,conoscenza e identità.
Le attività agricole e pastorali,prevalgono ancora nella Sardegna interna dove svolgono un ruolo fondamentale nel presidio e cura del territorio. Potrebbero però svolgerlo anche nel creare maggiore occupazione, produrre più reddito e contrastare lo spopolamento ove ricevessero un adeguato supporto finanziario e tecnico. Gli interventi di sostegno al settore primario non sono in verità mancati nell’ultimo decennio, e tuttavia il Piano di Sviluppo Rurale 2014-2020 muove dalla premessa che le precedenti «politiche di sviluppo rurale non sono servite ad arginare lo spopolamento delle aree interne».
Cosa non ha funzionato allora? Vanno chiamati nuovamente in causa lo scarso supporto amministrativo e tecnico degli interventi, la macchinosità delle procedure, la lenta erogazione dei contributi finanziari, l’insufficiente verifica dei requisiti a beneficiarne e lo scarso controllo del loro corretto impiego.
Sono anche ben noti, però, gli ostacoli frapposti all’investimento agricolo dalla persistente confusione dello stato dei diritti fondiari e in particolare dall’errata classificazione delle terre cosiddette “civiche”, che assommano a circa il 15 per cento del territorio regionale e non appartengono a uno specifico ente pubblico (Demanio, Regione, Comune) poiché sono ancora di diritto collettivo.
Per quanto spesso ipotecata da pretese private illegittime, specie nelle zone costiere, questa massa fondiaria di ascendenza feudale potrebbe offrire, con opportuni piani di valorizzazione redatti dalle stesse comunità che ne sono titolari, importanti risorse integrative alle aziende agricole a base familiare o cooperativa che, nonostante la prevalente opinione contraria, hanno ancora un futuro e possono contribuire al ripopolamento delle campagne. La normativa regionale in materia (legge n. 12 del 1994) ha peraltro aperto nuove potenzialità di valorizzazione di questo enorme patrimonio, sia realizzandone l’inventario, che ha appunto portato alla luce i molti casi di privatizzazione illegittima, sia prevedendo la possibilità di unsuo utilizzo economico moderno tanto nelle tradizionali attività agricole e allevatrici, quanto nelle nuove attività dell’agriturismo e della valorizzazione ambientale. Occorre però che la Regione svolga un ruolo attivo nello stimolare i Comuni a definire i piani di valorizzazione di tale patrimonio.
Per il ripopolamento delle zone interne si può pensare, più in generale, a un insieme coordinato di interventisul terreno sia degli incentivi che della fiscalità agevolata (prevista dai regolamenti comunitari), volti a incoraggiare le imprese giovanili e la formazione delle famiglie, semplificando le procedure di attivazione dell’impresa e di accesso al credito e fornendo il supporto tecnologico (e informatico) utile a moltiplicare gli esempi già sperimentati di sincretismo virtuoso tra pratiche e saperi tradizionali e competenze e conoscenze proprie dell’economia più avanzata, anche in cifra ecologica.
Non è diversa la prospettiva di sviluppo che si può tracciare per l’impresa artigiana in contesto rurale, le cui potenzialità permangono largamente inespresse in numerose produzioni. Anche sull’artigianato locale incombe però il problema del ricambio generazionale e della trasmissione dei saperi depositati dalla tradizione. Da qui l’urgenza di un ripensamento generale della formazione professionale, cui va assegnato il compito edi conservare e trasmettere i saperi tradizionali edi familiarizzare gli artigiani con gli strumenti dell’alta tecnologia.
Per quanto importanti le produzioni artigianali sono elettivamente destinate a mercati di nicchia e non possono perciò avere un impatto economico risolutivo sui territori, che può venire soltanto da un insieme di attività integrate, comprese quelle di maggior scala industriale. Avvertiti peròdalle esperienze del recente passato della necessitàdipuntare oggi su imprese innovative sotto il profilo tecnologico e di limitato impatto ambientale, quali già esistono nell’area metropolitana di Cagliari e non sono del tutto assenti neppure nella Sardegna interna. Le condizioni favorevoli all’affermazione di un nuovo modello di industrializzazione, postfordista ed ecocompatibile, non mancano del tutto grazie alla ricerca teorica e applicata sviluppata dalle due Università, dal CRS4 e dal Parco tecnologico di Pula.
Nessun programma di sviluppo economico può prescindere dalla sua incidenza sui livelli occupativi. Lo stato di salute sociale di un Paese non è segnalato dal prodotto interno lordo, ma dall’occupazione. Nel 2017 il tasso di disoccupazione sardo è stato del 17 per cento, a fronte di una media italiana attorno all’11 per cento. Il tasso di disoccupazione giovanile è anche più grave perché per la fascia d’età tra i 15 e i 24 anni supera il 50 per cento, inferiore soltanto a quello della Sicilia, della Calabria e della Campania. Tra le conseguenze la ripresa del movimento migratorio,che nel biennio 2016-2017 ha registrato oltre 6000 partenze e ha interessato soprattutto i giovani, fra i quali molti laureati.
Il problema non è ovviamente solo sardo, o italiano, perché la disoccupazione di massa è conseguenza delle politiche neoliberiste in atto sin dal crollo del Muro di Berlino e che la crisi del 2008 ha contribuito a generalizzare, sul traino americano.
A subirne le conseguenze è stata soprattutto l’Europa comunitaria, e in particolare l’area dell’euro che negli ultimi dieci anni ha patito nell’insieme una costante stagnazione.
L’espressione più generale e dirompente delle politiche liberiste è il fondamentalismo del mercato, generatore sia dell’autonomizzarsi delle attività finanziarie(e dei relativi profitti)rispetto all’economia reale (la cosiddetta finanziarizzazione), sia del sovrapporsi delle decisioni delle grandi corporation alla volontà dei governi nazionali, impotenti a dettar loro regole di comportamento e piegati di frequente a politiche penalizzattrici dei diritti dei lavoratori e dei poteri delle loro organizzazioni.
In questo quadro di strapotere degli interessi privati è necessario rilanciare il principio che è stato alla base della costruzione europea dello stato sociale, e cioè del ruolo irrinunciabile dello Stato, in primis come garante di un corretto bilanciamento nell’economia tra sfera privata e sfera pubblica e quindi anche di ispiratore e promotore di strategie, piani e programmi di intervento economico finalizzati alla piena occupazione e al benessere collettivo (sulla potente linea tracciata dal New Deal americano degli anni Trenta). C’è dunque da operare una rottura non solo con la visione degli economisti di scuola liberista, ma anche con la più o meno larvata diffidenza verso l’intervento pubblico di diverse componenti dello schieramento di centrosinistra.
Per invertire i processi che hanno portato alla “catastrofe del lavoro” serve insomma un diverso modello di sviluppo, intriso di neoumanesimo, imperniato sugli obiettivi della piena occupazione e del benessere delle popolazioni. Un modello certamente rivoluzionario rispetto alla dissennata fiducia nel funzionamento spontaneodel capitalismo, che nonché creare ricchezza e lavoro va sempre più producendo società che mortificano e annientano il lavoro. E bisogna anche rovesciare quel corrente paradigma analitico e teorico che lega la generazione del lavoro alla crescita, affermando viceversa la necessità di creare lavoro per rilanciare lo sviluppo, di qualità e sociale. Diciamo perciò anche che lo Stato non deve temere di farsi datore di lavoro di ultima istanza, specie con investimenti pubblici ad alto potenziale occupazionale sui beni pubblici e comuni e sui bisogni sociali insoddisfatti (assistenza ai disabili, agli emarginati, ad anziani e bambini, lenimento dei disagi della vita in periferia, uso sano del tempo libero, istruzione diffusa, etc.). Investimenti tali da premiare i consumi collettivi rispetto a quelli individuali e da sollecitare la domanda di produzioni interne piuttosto che estere.
Nel nostro intendimento questo programma non prelude alla creazione di un nuovo soggetto politico, di cui al momento non si avverte il bisogno, ma vuole aprire e sollecitare il confronto politico e culturale tra quanti, singoli o variamente organizzati, partecipano dei valori e ideali di una democrazia aperta al progresso, al riconoscimento dei diritti sociali, alla comprensione del diverso e al rispetto della natura.